Architetture dell’illusione
di Steven Salaita, 10 settembre 2021
Il simbolismo è irresistibile: sei uomini – detenuti politici secondo l’opinione mondiale, terroristi secondo chi li ha catturati – sono scappati dalla prigione di Gilboa in Israele, una fortezza coloniale strettamente sorvegliata, per poi scomparire nell’oscurità del primo mattino in una fuga così audace e improbabile che sarebbe sicuramente potuta diventare un colossal hollywoodiano se non fosse per il fatto che Hollywood odia i palestinesi.
Il buco da cui sono usciti oltre il muro della prigione non poteva essere molto più grande di trenta centimetri di diametro. Come hanno fatto sei uomini adulti a infilarsi in una cavità così piccola? Come ce l’hanno fatta a portare a termine questa grandiosa impresa di ingegneria rudimentale? Come sono riusciti ad aggirare l’apparato di sicurezza sionista? Non lo sappiamo, ma ne sono stati capaci. Ed è proprio questa ‘inconoscibilità’ la magica sostanza della loro fuga.
Sono emersi dalla terra come risorse preziose, come organismi appena nati, come semi determinati a dare inizio alla vita. Gli arabi hanno gioito in due continenti mentre gli israeliani e i loro sponsor imperialisti hanno giurato di riprendere in mano il controllo: più legge, più ordine, più spionaggio, più carcere. Come sempre quando i palestinesi si dimostrano capaci di comportamenti umani, gli occupatori non fanno che lamentarsi della loro ferocia e dell’illegalità, ma alla base dell’indignazione c’è la solita angoscia che gli indigeni abbiano nuovamente rifiutato la legittimità della loro giurisdizione. Stavolta sono stati gli occupatori a subire l’umiliazione, la demistificazione e l’inganno ad opera di persone la cui presunta inferiorità è una componente fondamentale dell’ autostima di chi occupa. Gli israeliani non possono più trovare conforto nella convinzione sprezzante che i palestinesi non siano altro che semplici bestie che strisciano sul ventre. I sei evasi hanno violato qualcosa di molto più grave di un carcere di massima sicurezza; si sono infiltrati nel sottosuolo granulare della fragile psiche del sionismo. Prima, quel piccolo buco. Poi, l’intero paese.
È proprio la gioia per la fuga provata dalla maggior parte degli osservatori a testimoniare il degrado della vita sotto il capitalismo. Chissà quanti di noi, pieni di ansie e oberati di lavoro, vorrebbero emergere da una piccola apertura in un mondo diverso. Eppure possiamo riconoscere che i sei uomini sono riusciti a fuggire grazie a uno sforzo immane e ad altrettanta dedizione, esattamente ciò che sarà necessario per tutti in un momento come questo, di crescente scarsità e insicurezza, di ecocidio ed entropia, in cui termini come “segregazione” e “blocco” fanno ormai regolarmente parte del nostro vocabolario. Ci identifichiamo con i perdenti che ce l’hanno fatta anche se sappiamo che, per loro, il mondo è diventato ancora più pericoloso. Quei perdenti ci invitano a leggere, almeno a livello inconscio, la rottura che sono riusciti a operare come una gara tra ribellione e autorità, immaginazione e limite, primordialismo e tecnologia.
Ma la fuga non è stata meramente un atto simbolico. È stato un miracolo fisico, con ripercussioni materiali che dobbiamo ancora comprendere appieno. Un colonizzatore umiliato è una creatura pericolosa, incline alla violenza gratuita come mezzo per riaffermare il proprio senso di superiorità psichica. Il colonizzatore vuole catturare e umiliare i fuggitivi. È l’autopercezione del colonizzatore che verte su tali grandiose manifestazioni di autorità.
Il carcere di Gilboa si trova all’interno della Linea Verde, in quella che è impropriamente conosciuta come “Israele vero e proprio”. Una volta emersi in superficie, dove sono andati questi uomini? Presumibilmente in Cisgiordania, con forse il piano di un successivo volo verso la Giordania o la Siria, cosa che richiederebbe un’altra audace fuga. Ancora una volta, la magia sta proprio nell’ignoto.
Proprio in queste ore due degli evasi sono stati catturati nella città biblica di Nazareth, apparentemente per la soffiata fatta da un pensieroso abitante del luogo. Se è vero, perché non possiamo mai escludere la disinformazione, il risultato è simile a quello che la maggior parte di noi si aspettava che accadesse in caso di nuovo arresto. Anche qui, però, c’è motivo di ottimismo. L’occupante è quasi inutile senza la codardia e la menzogna di informatori nativi. La feccia della società palestinese rappresenta l’apogeo del sionismo. Ora attendiamo notizie degli altri quattro fuggitivi.
Oltre alle solite spie, i quattro ancora liberi devono diffidare di collaborazioni ad alto livello. L’Autorità Palestinese si è già impegnata ad aiutare a riportare gli uomini in custodia israeliana. Se riescono ad entrare in Giordania, non possono aspettarsi alcun sollievo dal re Abdullah, la quarta generazione hashemita che collude con l’entità sionista. Quindi sono emersi da sotto la prigione solo per intraprendere una vita di latitanti. Devono trovare luoghi in cui la dedizione alla causa sia assoluta e indiscussa. Con meno clamore, potremmo anche noi seguire il loro esempio.
Qualunque cosa accada a questi sei uomini, possono già cantare vittoria. Celebriamo le loro gesta perché per gli oppressi la vita si incarna nella resistenza e nessuna mossa del tronfio narcisismo di saccenti online potrà mai eguagliare il brivido di un contrattacco ben eseguito.
Come migliaia di evasi, esuli e fuggiaschi nel corso dei secoli, questi sei palestinesi hanno dimostrato quanto sia tenue il concetto di sicurezza per l’oppressore. Non può essere costruito in acciaio e mattoni di cemento. Forti di una adeguata motivazione, il nativo è in grado di eludere database e sensori a infrarossi; può scavare sotto o ascendere sopra le barriere di cemento; il nativo può scomparire in spazi nascosti a cui l’occupante non ha accesso. C’è un punto debole fondamentale nelle società che per attuare la propria visione di sicurezza fanno affidamento su una massiccia sorveglianza e polizia: la tranquillità non è che un’illusione proporzionale ai benefici o ai travagli inerenti alla posizione di classe dell’individuo. Ripetutamente nel corso dei secoli gli esseri umani con poco capitale sociale o influenza legislativa si sono dimostrati capaci di minare le restrizioni volte a garantire conforto a loro spese alle élite economiche e politiche. Nonostante alcuni mesi difficili che abbiamo attraversato, nulla suggerisce che smetteremo di far leva su quelle capacità. Le carceri e i posti di blocco che promettono sicurezza (al cittadino ‘giusto’) costituiscono in definitiva l’architettura di un’illusione.
L’illusione è stata parte integrante del sionismo sin dal suo inizio: i palestinesi non esistono, i palestinesi aderiranno, i palestinesi emigreranno, i palestinesi si sottometteranno, i palestinesi dimenticheranno. Eccoci qui, oltre un secolo dopo, e gli stessi palestinesi che avrebbero dovuto scomparire molto tempo fa sono radicati nel cuore delle persone perbene in tutto il mondo.
In definitiva, la fuga e le reazioni successive chiariscono la natura del sionismo e il tipo di futuro che vuole creare: distruttivo, ineguale, militarizzato, catastrofico. Non resistiamo semplicemente al sionismo, ma all’insieme di valori che esso rappresenta su un pianeta in deterioramento. Il sionista è generalmente consapevole delle sue macabre affiliazioni, indipendentemente dal fatto che le scelga o meno. E questo genera il delirante apparato di sicurezza del sionista. Tutti i detenuti palestinesi sono politici e tutte le carceri israeliane esprimono una politica e prassi anti-palestinese. Le scommesse intelligenti puntano sui palestinesi. Nessuna struttura coloniale può soffocare l’ingegnosità e la resilienza del nativo.
Per gentile concessione dell’autore, tradotto da Pina Piccolo dall’originale inglese apparso nel sito STEVESALAITA.COM
Steven Salaita è uno scrittore, studioso e conferenziere di origine palestinese e giordana nato negli Stati Uniti, e che ha a suo attivo otto libri su decolonizzazione, studi nativi americani, migrazione, razzismo (particolarmente anti arabo) e letteratura. Nel 2014 è stato al centro dell’attenzione statunitense quando per i suoi tweet a favore della Palestina e che denunciavano l’occupazione, l‘assedio e la guerra contro Gaza messa in atto da Israele, l’Università dell’Illinois gli ritirò la cattedra di studi nativi americani che gli era stata appena assegnata. È blogger nel suo sito Steve Salaita – No Flags, No Slogans.
You may also like
-
Niente da vedere. Tutto da tradurre. Recensione di Giuseppe Ferrara
-
FREE LEONARD PELTIER! – Lance Henson
-
Shailja Patel – Mangiatrice di morte / Eater of Death (from Shailja Patel’s blog)
-
from The Antonym: “Windows” – Pondering collaborative translation of Julio Monteiro Martins with Donald Stang and Helen Wickes – Bishnupriya Chowdhuri
-
Panel on Mother Tongues and Multilingualism, Hosted by The Antonym- Bridge to Global Literature