Cantata per l’abbattimento di Villa dei fiori: Imola 7 ottobre 2010
Quando l’esecutore materiale del sogno
dalla cabina alzando la leva aziona le mascelle
che in un morso maciullano due metri del secondo piano
Teresina da dentro la fossa muove la poeta
all’acquisto di un vassoio di bigné
da Dulcis in fundo, pasticceria di gala
e un thè freddo alla pesca
da regalare al demolitore
nella pausa
All’uomo dal casco giallo e la tuta blu
che ora si stringe in una foto ricordo
con l’addetto del Comune e il capocantiere
davanti all’edificio sventrato
abbattuto
non in senso psicologico
ma giù per terra
come le statue di Lenin
La macchina l’ha azzannata e
Qui giace
Qui è caduta in brandelli
l’insegna
VILLA DEI FIORI
USL Imola – Diagnosi -Cura
Salute Mentale Emilia Romagna
Gli chiedo il nome, per la poesia
e renitente l’esecutore materiale
mi indica l’autorizzazione del cantiere
mentre le fauci del macchinario
della Faro Technical
(sí, Faro come quello di Alessandria, terza meraviglia del mondo)
riposano dall’ingordo pasto
L’esecutore materiale del sogno
dichiara essere tale Lekbir, Saad
cioè “Il giudizioso o l’informato d Lekbir, città marocchina”
(con dicitura più moderna” Saad, l’informatico”)
“ma mi chiamano Franco”
mentre la lucidità della pelle bruna e l’occhio
che vagamente svela i geni di Genghis
tradisce la recondita identità
di Shamsur Kashem
di un terra di monsoni ed alluvioni
che sostituisce il marocchino
delle terre aride
altrove impegnato stamattina
Non che l’abbiano notato il fotografo
e il giornalista di corte
l’addetto del comune
il professore di tecnica
appassionato di traiettorie di caduta
i viandanti casuali, tutti maschi,
solo loro si fermano,
le donne operose
veloci a girare i tacchi
non perdono tempo in distruzioni
mentre invece si fermano testimoni occasionali
sette ragazzi maghrebini sorpresi
alla vista della generazione di macerie
in questa terra di progresso
stupiti, credevano succedesse solo
nelle terre delle bombe
Un signore “di qua” corpulento
barbuto, in abiti sportivi
segue trasognato il crollo
pensa “Certo non siamo davanto al Muro
ma anche questo
di sogni e incubi ne aveva
un bel po’ dentro
malgrado il bucolico nome
“Amarcord” bambino
mio padre mi portava
a vederla costruire
moderno, tetto in eternit
“Basta con i vecchi mattoni
intonaci rossi ed ocra!”
Candido, moderno igienico questo
invece si ergeva, calla d’etiope tra gli ibischi
fiore di una visione
di un possibile mondo diverso
Gioisce nella fossa Teresina che 40 anni dopo
ha trovato l’anima gemella
che dalla cabina le ha realizzato il sogno
Non era delle sue terre, della Bassa,
ma anche lui veniva da una terra di risaie
lontana più di settemila leghe
e talmente bassa che era sempre allagata
“IN POLVERE, PARETI,
IN POLVERE PAVIMENTI, SOFFITTI,
GRATE, IN POLVERE DOVETE TORNARE !
POLVERE TORNATE AD ESSERE
MEMENTO MORI
VOI LEGACCI DEI MIEI TORMENTI!”
Così aveva urlato quarant’anni fa
e le infermiere l’avevano guardata
un po’ timorose
come si osserva una sibilla impazzita
Anche Teresina di identità ne aveva
un cassetto
e quella che preferiva era
di cantora
incompresa
che dicevano farneticava
cantava degli interstizi
che il genius loci le indicava
Nessuno lo vedeva
nessuno lo sentiva
tranne lei con il suo orecchio fino
da contadina
che distingueva il canto
o meglio lo strofinio
di cicale
nel cloroforme, asettico
biancore
di Villa dei Fiori
Anche se laddentro non erano gradite farneticazioni
il folletto, el “ mazapegul” la sera le si sedeva sul petto
sembrava piccolo,
un incrocio tra scimmia e gatto
sul petto la notte
come le pesava
e come le faceva compagnia
Il mazapegul tutta la notte
le raccontava
i fatti di Villa dei Fiori
che medicine, che dottori
che macchine che dispositivi terapeutici
che aggeggi
si usavano
Quali infermiere erano buone
quali cattive
da chi guardarsi
di chi fidarsi
Un susseguirsi di direttori
litigava chi per dimettere
e chi per mettere
E poi era diventato capo uno con il nome
di un fiore alpino
uno che diceva ci voleva fuori tutti
ma poi a fargli prendere posizione…
le raccontava il suo
loquace mazapegul,
il genius loci
folletto dal berretto rosso
come lo chiamano
qui tra Emilia e Romagna
E poi erano venute di moda
parole in una lingua speciale
TSO elettrochoc
Altro che la mia lingua canterina
che canticchia liste di quel che vede
di quel che non si vede
e la gente ti guarda
a bocca aperta
“come s’i fuss matt’
Ma non eran né matti
né ciechi gli antichi
e se li sai ascoltare te le dicon
le cose nascoste
Anche questa storia del bianco,
dell’igiene, mica la digeriva Teresina
e non a caso, quarant’anni dopo
l’hanno abbattuta Villa dei Fiori
perché dicevano che dal tetto
potevano sprigionarsi polveri velenose
l’amianto,
sí quello del vestito del santo
che Berta filava con la lana,
la lana e l’amianto
del vestito del santo che andava sul rogo
e mentre bruciava
urlava e piangeva e la gente diceva:
“Anvedi che santo vestito d’amianto”
Se la ricordava quella canzone Teresina
e quel cantante strampalato
che portava il cilindro,
che figura fantasiosa,
come sarebbe stato bello
se fosse stato suo fratello
Gli piaceva di più che quella canzone
del signore in frac
che si lanciava dal ponte
Questo era più
pazzariello, meno intellettuale
No, Teresina non c’entrava
con tutto quel biancore,
eppure quella polvere il suo naso l’aveva aspirata
quella polvere sottile
che ora riempie i polmoni
degli infanti
costretti a farsi
mesi e mesi e mesi
l’aerosol
con le madri che
si sono fatte una cultura
su dove è meglio affittare la macchina
se aggiungerci o no l’eucaliptus
E se guardi in Google Earth
le vedi tutte le polveri sottili
sputate dalle ceramiche
sputate dagli stabilimenti
di tutta la “Padania”
e che arrivate ai primi colli
ai piedi dell’Appennino
si fermano e si depositano
e si siedono sul petto della città
che le gravano addosso come folletto
ma come il mazapegul non si vedono
e questi sono razionali cittadini/utenti/ consumatori/contribuenti/elettori
non folli come Teresina
che nessuno le crede
e la dicono matta
una che vuole fermare il progresso
E così oggi abbattiamo
il tristo maniero
di Teresina
la torre dentro la quale
la bella contadina cantora fu rinchiusa
E lei gioisce nella tomba
anche se sa che lo fanno
non per remore ma perché proprio ora
secondo l’assennato amministratore trasformista
dal nome di un antico santo calabrese
nato nel borgo contadino di Mammola, umile fiore
è il momento giusto per riaprire le cittadelle dei matti
rifatte da architette cosmopolite
alle delizie del mercato
e il buco lasciato
da questa candida Villa dei fiori
può servire a tirare su dei soldi per l’Impresa
Mentre il saggio Kashem
adesso sparge l’ultimo
pezzo di intonaco
come zucchero a velo
su questa torta topicida
che avvelena noi
e i nostri piccoli
e l’incartiamo
con un bel fiocco
che nessuna
l’abbia a vedere
E Teresina ride
con la bocca sdentata
di chi non ha
piú niente da azzannare
Pina Piccolo, 11 ottobre 2010