Captato nel vento
Gelido il vento serpeggiava tra i ruderi del borgo, quasi completamente ricoperto di piante rampicanti. Mucchi disordinati di laterizi e calcinacci si alternavano a spettri di strutture ancora in piedi: qui, quella che era stata la casa del panettiere, a due piani, una scala quasi ancora intatta con lo scorrimano di ferro, ma al secondo piano la soletta era per lo più crollata, lì, quello che rimaneva della capella, con un mozzicone di affresco. I pozzi erano ancora funzionanti ed era veramente quel che contava, potevamo restare lassù senza dovere scendere al fiume per prendere l’acqua.
Comodo, non avremmo dato nell’occhio. Sei persone e quattro lupi, in questi tempi ci si poteva ancora imbattere in bande che non avevano ancora conosciuto l’Evento e potevano creare problemi. Molti di questi piccoli gruppi circolavano armati e anche se ti sforzavi di fare contatto erano ancora ben lontani dal capirti e dal farsi capire. Erano per lo più discendenti di quelli che allarmati dalla piega che avevano preso le cose, all’epoca dei nostri trisavoli avevano cominciato a trasferirsi in posti isolati per proteggersi meglio. E così lontano da tutto e da tutti erano ancora rimasti all’epoca della parola. Anzi, non sapevano proprio niente di quello che era avvenuto poi. E non a caso erano quelli che spesso finivano sbranati.
Egle, Jasmina, Hailè, Maso e io Filo invece ci sentivamo al sicuro con la grande anziana, donna Cinnì e non vedevamo l’ora che iniziassero i canti. Egle aveva avuto una nonna che sapeva ancora farli, aveva imparato qualcosa da sua madre, ma le venivano male perché non aveva l’ugola allenata. Venivano fuori suoni strani, gutturali e goffi ed Egle, da piccola era terrorizzata quando li sentiva, e costringeva quindi sua nonna ad inoltrarsi nei boschi per farlo. Jasmina e Maso, cugini e amici per la pelle nelle loro varie scorribande, una volta in una discarica avevano trovato un aggeggio di metallo con pezzi che si potevano premere. Ci giocarono un po’, poi improvvisamente dal coso cominciarono ad uscire dei suoni che forse potevano assomigliare a quelli un tempo lanciati dalle persone. Prima furono presi dalla paura ma poi si lasciarono accalappiare dal fascino di quegli echi mai uditi prima e stettero a sentirlo per un bel po’. Decisero quindi che conveniva portarlo ai grandi, poteva essere qualcosa di interesse. Lo consegnarono a Baba Khan che ci giocò un po’ prima di far estinguere quei toni e depositarlo tra gli oggetti di rito. Anche Hailè eKufu, i ragazzi che considero amici del cuore sono stati sfiorati in qualche modo da quel passato perchè un giorno, vicino al fiume si erano imbattuti in una piccola banda di cultori della parola: gli era quasi venuto da ridere a vederli dimenare le labbra, strabuzzare gli occhi accompagnando il tutto con movimenti delle mani che non si capiva in che relazione stessero con i suoni. Sembravano esagitati, in balia di qualche forza che li dominava, non c’era quindi da meravigliarsi se portavano con sé cose che potevano fare male agli altri. A me, in fondo dispiaceva un po’ di essere l’unica del gruppo di noi ragazzi che non fosse mai entrata in contatto con quest’altro mondo, mi faceva sentire un po’ inferiore.
Circolava un pensiero non ancora confermato che si fossero soffermati nei paraggi del nostro territorio perché cercavano degli strani contenitori di immagini composti da molte sfoglie messe insieme che essi con molta agilità riuscivano a muovere in avanti, emettendo talune volte suoni di accompagnamento. Pare che quelle immagini fossero in qualche modo in rapporto con quei suoni e forse in uno di contenitori c’era un segreto che disperatamente cercavano e per ottenere il quale erano disposti anche a far del male agli altri. Ecco perché, per questa nostra cerimonia avevano preso grosse precauzioni, ci avevano messi in un posto dove non era necessario attingere l’acqua dal fiume, e disposti a cerchi concentrici per sette chilometri eravamo protetti da ben cinquantaquattro vedette. I grandi continuavano a comunicarci che i giovani erano gli elementi più importanti della comunità e andavano accuditi. In lontananza vedevo donna Cinnì affacendarsi a preparare una specie di altarino, intorno a cui c’erano disposte alcune di queste sfoglie lunghe e sottili di cui avevo parlato. Sembrava un po’ preoccupata, aveva quell’espressione un po’ tirata che assumeva nei momenti dei grandi riti.
All’improvviso, tutti e cinque capimmo che era arrivato il momento di avvicinarci: Donna Cinnì ci convocava. Ci sedemmo in circolo, come eravamo abituati a fare sin da piccoli in modo che la comunicazione scorresse fluida. Donna Cinnì ci fece capire che era arrivato il momento di lasciarci dietro il velo protettivo dell’infanzia ma non la sua curiosità o il suo ardore. Per entrare nella cerchia dei grandi dovevamo capire alcune cose dei nostri antenati, cose che potevano magari spaventarci un po’ ma che dovevamo accettare perché facevano parte del nostro DNA, anche se in parte la nostra quarta generazione le aveva superate accorpandole. Poichè a stare fermi si rischiava di congelare, Cinnì aveva fatto un grande fuoco e poi le braci le aveva sistemate in un braciere al centro, vicino all’altarino, mentre dietro a noi Van, Tukume, Jugi e Kama si erano allungati anche a loro a cerchio e ci coprivano le spalle riscaldandoci con la loro folta pelliccia. Li ringraziammo subito, come ci avevano insegnato a fare fin da piccoli, mai trascurare la…..
Pina Piccolo 2007, frammento di testimonianza dalla sesta dimensione parallela, captato nel vento Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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