Nel tentativo di colmare il vuoto lasciato dalla prematura scomparsa di un grande narratore, propongo questo racconto inedito di Julio Monteiro Martins
CIELO
“L’Europa offre delle forme precise sotto una luce diffusa. In Brasile, il ruolo per noi tradizionale del cielo e della terra, si inverte. Al di sopra della distesa lattiginosa del mato, le nuvole compongono le più stravaganti costruzioni. Il cielo è la regione delle forme e dei volumi; la terra conserva la mollezza della prima età.”
(Claude Lévi- Strauss, Tristi tropici)
Esposto al freddo disarmato dei miei tredici anni, anche se nascosto sotto la coperta di lana, con in mano una torcia elettrica e un libro di Schopenhauer, mentre ascoltavo il respiro profondo di mia nonna immersa nel suo sonno chimico, leggevo intimorito: «La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia… Il godimento è solo un punto di trapasso impercettibile nel lento oscillare del pendolo».
Nella stanza contigua mio nonno Celso, insonne, attraversava la notte, lottando e venendo a patti con la nevralgia del trigemino, un dolore selvaggio e mostruoso che gli bisbigliava inviti al suicidio. Ogni suo urlo rauco e tremante era per me un nuovo punto di esclamazione alle certezze del filosofo tedesco.
La mattina presto, ottuso e indolenzito, indossavo la divisa beige del Dom Bosco, il giaccone blu, e andavo a dormicchiare sul banco della scuola, col quaderno aperto davanti alle palpebre chiuse, fino a che un professore più severo, il colonello Malebranche dietro i suoi enormi occhiali neri squadrati – non siamo mai riusciti a vedere il suo sguardo crudo – o il Boca Murcha, di Francese, il cui passé composé si rovesciava gelatinoso dalla lingua al mento, mi beccasse e chiamasse per nome e cognome, unico modo di ripescarmi da quell’altra dimensione.
E così trascorrevo i giorni e le notti di un’adolescenza che sembrava piuttosto una pantomima della vecchiaia. Giorni lontani dall’amore materno e ancora senza amori coetanei, e quindi giorni secchi e freddi, di un’attesa ossuta e senza direzione, timoroso che il grigiore del presente si addensasse nel buco nero del futuro.
Questo quando ero inchiodato a terra, mai quando attraversavo i cieli brasiliani insieme a mio zio Ney, nel suo piccolo Beechcraft J35 Bonanza, che quando decollava e mi staccava dal mondo cancellava Schopenhauer e ogni dolore o noia, cambiava lo spazio, rovesciava il mondo e fermava il tempo. Slancio ed estasi in contemporanea, quei voli preparavano l’anima all’affrancarsi del corpo, la completa liberazione dalla paura del non essere, da qualsiasi possibile paura.
Zio Ney, antico pilota della Panair do Brasil, era stato costretto ad andare in pensione molti anni prima del previsto a causa del fallimento e dell’estinzione della compagnia aerea per la quale lavorava. Aveva avuto una buona liquidazione e deciso di mettersi in proprio, comprando il Bonanza che imparò a conoscere in ogni suo rumore, umore e tremolio, terzo aereo della sua vita, dopo l’apprendistato in un biplano Curtiss Fledging, il “Frankenstein” del Correio Aéreo Nacional, con il quale aveva fatto qualche migliaia di miglia di volo prima di essere ammesso nella Panair e pilotare un grosso Model 10 Electra. Con il Bonanza tornava alle origini, lasciava il completo e la cravatta per rivestire la vecchia tuta, il suo piccolo aereo, che affittava ai fazendeiros in visita nella capitale, ai politici locali in pellegrinaggio dai generali o che gli serviva per portare dalle fazendas all’ospedale cittadino qualche impallinato o malato grave benestante. A volte gli chiedevano di portare medicine, whisky e qualche bella ragazza a ore in un villaggio sperduto dove il denaro riusciva ad arrivare per strane vie ma poi ristagnava lì senza sapere bene dove andasse o a cosa servisse.
Viaggiava a bordo del suo Bonanza non più di una o due volte la settimana. Gli altri giorni li passava a fumare la pipa e a guardare le nuvole dalla veranda di casa sua nei pressi del Campo de Aviação o a fare la manutenzione dell’aereo. Nelle giornate perfette però veniva col suo furgoncino a prendermi a casa la mattina presto prima che andassi a scuola, o le domeniche un po’ più tardi, sotto lo sguardo apprensivo di mia nonna che in fondo non aveva mai creduto che qualcosa più pesante dell’aria potesse volare ma non se la sentiva di sottrarmi a quell’assaggio di felicità tra le montagne e le nuvole.
Un minuto dopo il decollo, l’universo si era già trasformato. Il sole era dentro i fiumi, e gli aquiloni visti dall’alto erano piccole pennellate di colore sul verde chiaro dei campi o quello più cupo delle foreste.
Le gigantesche palle colorate accanto a noi non erano mongolfiere, ma stormi di uccelli che si spostavano in cielo cambiando spesso direzione: le palle verdi dei pappagalli, quelle rosse e azzurre delle arara, le arancioni dei sabiá o le nere degli anu. Un cielo più affollato della terra stessa, quasi deserta, solo qualche raro bue bianco a pascolare e qualche sporadico camioncino ballonzolante sulle strade sterrate.
Guardando in alto lo spettacolo era immenso. Montagne capovolte di nuvole tondeggianti bianchissime nei bordi e dalla polpa grigia. Intorno agli squarci da dove penetravano i raggi del sole risplendeva una cornice dorata, di un giallo intenso, con sfumature di rosa e di porpora. Più in alto, nuvole lontane, sfilacciate, separavano il mondo dal cosmo, una sorta di grata di vapore che serviva da confine ai nostri voli. In fondo alla pianura l’orizzonte era leggermente curvo, facendo intuire la sfera gigantesca. Lì, terra e cielo si sfumavano l’uno nell’altro, dietro un lenzuolo di nebbia violacea coronata dai riflessi d’oro.
Zio Ney, un uomo mite e di poche parole, ogni tanto girava la testa per guardarmi e mi sorrideva, complice del mio stupore e soddisfatto della mia meraviglia. Penso che sapesse cosa quei voli significassero per me, il grado di sollievo che mi procuravano dopo le lunghe immersioni nel dolore altrui, attraversando l’adolescenza in apnea senza scorgere l’altra sponda. Volare vicino alle nuvole, tra gli stormi colorati, era anche un messaggio potente: basta alzarsi dal suolo e tutto quello che c’era prima e ci assediava scompare come per miracolo, la realtà più opaca si diluisce in un’illusione inoffensiva, e ogni mole incombente è in verità una miniatura, ogni fabbricato un giocattolo.
Quando atterravamo nuovamente sul Campo de Aviação tornavamo a un mondo addomesticato, che per un po’ non ruggiva, miagolava. Camminavo accanto a mio zio e la terra oscillava leggermente sotto i nostri piedi, insicura di essere mare, forse umiliata da quel cielo immenso che non aveva limiti.
Più tardi, naturalmente, anche l’adolescenza passò, e i voli cessarono. Altre terre arrivarono, altre città, e la solitudine di quegli anni è rimase rinchiusa nella memoria, preservata ma innocua, segno di dolore ma non più dolore.
Di zio Ney ho avuto poche notizie negli anni, e del nostro Bonanza nessuna. Una cugina mi scrisse un giorno raccontandomi che era morto a casa, ucciso da un attacco di cuore. Per qualche tempo sono rimasto affranto, e in silenzio mi chiedevo se non avesse portato con sé tutto quel cielo, se non avesse chiuso quella porta alle mie spalle.
Poi, guarito dal dolore e dalla noia grazie ai capitoli più interessanti della mia storia, mi sono domandato se zio Ney fosse esistito davvero, se il Bonanza rosso e bianco fosse davvero suo, se avevamo davvero volato insieme un giorno. E allora mi sono ricordato che dietro la casa dei miei nonni c’era una collina, sulla quale nelle giornate di sole salivo fino alla cima per guardare la valle, la casa, l’insulso scenario di quella mia vita, ma soprattutto per guardare il cielo, le nuvole con le loro lunghe frange dorate, gli stormi di uccelli, e ogni tanto, qualche piccolo aereo che, decollando dal campo di volo vicino passava sopra la mia testa, mi pescava lì, solitario, e mi portava via con sé.
Julio Monteiro Martins
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