http://www.sagarana.net/scuola/seminario9/seminario3.html
Nel ripensare all’importanza che ha rivestito per me la rivista Sagarana mi è venuta in mente l’occasione in cui ho potuto discutere in maniera più articolata uno dei miei interessi, il grottesco, con Julio e le altre persone che partecipavano al IX seminario della Sagarana, in settembre del 2009. L’intervento riportato nel link è basato su un work in progress intitolato “tre apologhi sul grottesco” che vorrei completare nei prossimi mesi, con aggiornamenti. Copio sotto il materiale che ho in questo momento e che non comprende gli scambi che si sono avuti nel seminario:
Volevo prima di tutto ringraziare e complimentarmi con Julio per aver ideato e continuato a organizzare questi Seminari della Sagarana nonostante le mille difficoltà perché credo siano veramente un momento di incontro e di confronto necessari e potenzialmente molto proficui. Sono molto emozionata e non sono abituata a parlare in pubblico, quindi perdonatemi se invece di parlare a braccio leggo. Spero che non risulterà troppo noioso.
Inizierò e finirò il mio intervento con una poesia scritta in questo ultimo anno, ma la parte più corposa dell’intervento sarà, nello spirito di scambio e apprendimento reciproco che dovrebbe avvenire in un Seminario, una lettura di alcune parti di un work in progress per cui chiederò anche le vostre critiche e apporti. Questi tre apologhi in progress hanno un titolo: Il Grottesco, il Paese della Bella Figura e il Tenente Colombo. A prima vista si può pensare che questi tre elementi non abbiano alcun nesso logico e siano stati tirati fuori a sorte dal cilindro consunto di un prestidigiatore disoccupato che se ne va a zonzo per la città e, nella speranza di rimediare qualche monetina, cerca di incantare un pubblico di creduloni imbonendo meraviglie. In realtà credo che abbiano un nesso logico, che cercherò di far emergere. Per arrivarci dovrei raccontare tre storie esemplari, tre piccoli apologhi che potrebbero avere qualche attinenza all’argomento di questi seminari, ma su questo si potrà discutere.
Allora comincio con la poesia. Ricorderete che l’anno scorso tra ottobre e novembre ci sono stati due episodi che hanno occupato i giornali: il primo l’uccisione di 6 africani a Castelvolturno da parte dei Casalesi e alcune settimane dopo, il 9 novembre, la morte della cantante Miriam Makeba, sempre a Castelvolturno sul palcoscenico mentre si esibiva in una serata a conclusione di un convegno per le scuole del sud sostenuto da Saviano e contro la Camorra. Questa poesia è stata ispirata dalle immagini di questo suo ultimo concerto.
Allora inizio
Zenzile Miriam Makeba and the Castelvolturno Boys
Per chi ti brillano gli occhi,
Miriam Makeba,
Sul palcoscenico
La notte del tuo trapasso?
Grande Dea clemente
Per accompagnarla
Verso il grande portale
Non hai mandato
Le Parche a recidere i fili:
Non di marionetta
Morte
Hai decretato
Ma di donna integra
Che di libertà cantava
In ogni angolo di mondo.
Notte gelata, lassù esposta ai venti
Piazza semivuota
In una meridionale periferia
Su una carrozzina
L’artrite che ti rugge nelle ossa
Lo sconforto che ti assedia il cuore
Dopo sessant’anni di battaglia
Non ne puoi più, continuano a chiederti
Quella scemenza di Pata Pata
Ma ti brillano gli occhi
Come a una bimba
Zenzele Miriam Makeba.
In grembo tra le mani
Visibile solo agli occhi dei giusti
Il prisma
Dono della Grande madre
Che scompone la delicata frontiera
Tra ciò che ci è dato vedere
E ciò che ci è celato.
Niente tutù da canto finale
Del cigno nero
Per questa sarabanda finale
Abito da imperatrice
Perline e ori cuciti dalla
Ob Ob Exotic Fashions
Sartoria di CastelVolturno
Costellata, Miriam
Zenzele Makeba
Dai sei ragazzi
Per giorni
Senza nome
Marchiati
D’infamia dai giornali.
Aaaalla miiia deeestra
Fulgido con il tamburello in mano
ALEX GEEMES
Gridateli i nomi
Perchè la parola
Crea mondi
E racchiude
L’essenza
I proiettili dei Casalesi
Questo tuo nucleo
L’hanno mancato
Aaalla miiia siiiinistra
Risplendente
Al suo tamburo corsaro
ALAJ ABEBA
Si scatena
Per coprire il crepitio
Dei Kalashnikov
Aaaalle taaaastiere miiio nipote
L’eccelso
NELSON LUMUMBA LEE
Non servono presentazioni
Due nomi, un programma
Daaaavanti a voooi
Frenetici nel ballo
Gli agilissimi, armoniosi
(uno tra loro in verità un po’ sgraziato
Africano senza ritmo)
KWAME YULIUS FRANCIS, SAMUEL KWAKU e CHRISTOPHER ADAMS
Ambasciatori segreti
di Ghana, Togo e Liberia
Per voi i figli d’Africa
Hanno organizzato
La prima sommossa
Nera
Su suolo italico
Per voi
Adesso
Suona la banda
E, iiiiinfine ERIC AFFUM YEBAOD,
Col suo sassofono glorioso
Ha smesso di aspettare in macchina
Angustiato
Che gli portassero i pantaloni
Rattoppati
Ora esibisce davanti almondo
Il suo talento.
La nuova, ultimissima band
Di Lady Miriam
“Sings the blues”
Makeba
Mama Afrika
Imperatrice della Canzone Afrikana
Avvolta
Come dea
Nelle stoffe preziose
Della Ob Ob Exotic Fashions
Famosi stilisti di CastelVolturno
Rinomati in tutto il mondo
È venuta a riprendersi
I suoi figli
Dispersi nella Diaspora
Che onda dietro onda
Dura da sessantamila anni
Cantaci o Diva
Non l’ira funesta del Pelide Achille
Che infiniti addusse lutti agli Achei
Ma la bellezza del suono
Polifonico e inceppato
Le sillabe che si librano
Volteggiano e cadono
Come corvi con le ali spezzate
Da uragani prossimi venturi.
Questa poesia può sembrare un po’ strana, una specie di calderone che contiene pezzi di cronaca, allusioni mitologiche e letterarie, giornalismo, un patchwork contenente diversi registri. Mentre la scrivevo mi sembrava di essere una specie di dj che prendeva pezzi di memoria, che si erano impressi nella mia coscienza, alcuni venivano da fuori della finestra altri da dentro, e mi trovavo a fare una specie di sampling, campionamento e ogni tanto qualche scratching di registro. Negli ultimi anni, le mie poesie vengono così e questa frammentarietà e carattere eterogeneo credo registrino e ripropongano il modo in cui ci arriva l’esperienza del mondo. Questa mancanza di armonia, questo abbinamento di cose che appaiono discordanti le possiamo considerare un limite perché non hanno come risultato qualcosa di “armonioso’ o di bello o possiamo anche tentare un’altra strada, vedere se offrono degli strumenti di conoscenza del mondo che si addicono al momento storico di cui parlava Julio ieri? Secondo me, se seguendo le indicazioni di Calvino “nell’inferno cerchiamo di dare spazio e far crescere quello che inferno non è” ci imbattiamo in commistioni di immagini, saperi che recano l’impronta del territorio che lo generano e di quello circostante. E non si tratta di un territorio molto bello a vedersi. Non è uno di quei panorami che ti aprono il cuore. Sono quei famosi tempi bui di cui parlava Brecht ed è di quelli che dobbiamo cantare. Se vogliamo tentare questa opera di opposizione all’esistente e di recupero dell’essere umano dobbiamo forgiare delle nuove armi, o almeno affilare quelle già in esistenza. Occorre quindi fare una sorta di inventario di cosa abbiamo a disposizione. E, riflettendo su quello che potrebbe esserci nel nostro armamentario sono convinta che una delle armi più potenti per la letteratura critica sia il grottesco.
Io personalmente subisco il fascino del grottesco da tempo immemorabile. Sarà forse il risultato di un’indole disordinata, che arretra davanti alla simmetria come una cosa innaturale, istintivamente sono sempre stata attratta da cose che rivelano una formazione e natura ibrida, che rendono palese la contraddizione. Cose che sono sbilenche e non troppo armoniose, ad Apollo preferisco Pan.
A livello di studio, il grottesco l’ho un po’ approfondito molti anni fa, più di 20 per essere precisi, occupandomi del genere, prima in relazione al teatro di Dario Fo e Franca Rame, poi analizzando i racconti e le novelle di Gianni Celati. Avevo seguito il filo di Bachtin nella sua analisi dello spirito carnevalesco, che metteva in evidenza l’aspetto diciamo solare del genere, in contrapposizione ad una visione più sinistra e spostata verso l’assurdo elaborata dal critico tedesco Wolfgang Kayser, e rielaborata in seguito dalla studiosa francese Sylvie Debevec Henning ed altri che mettevano l’accento sull’elemento dell’ambiguità.
Non sono comunque un’esperta né nel campo della critica letteraria né di storia dell’arte, ma poiché non esiste una definizione univoca del grottesco ne approfitto per intrufolarmi negli interstizi ed elaborare una storia esemplare del genere forse un po’ fantasiosa.
Un rapido sondaggio tra scrittori, lettori, studiosi e giornalisti presenti al Seminario di Sagarana rivela che, dopo un primo, collettivo, unanime baluginio dell’immagine dell’attuale Presidente del Consiglio, la prima parola che descriveva il fenomeno variava tra: deforme, brutto, strano, contraddizione, spaventoso, cose diverse messe assieme, repulsione, ridicolo, buffo. Quindi consenso per quanto riguarda la scarsa armonicità, ma differenze per quanto riguarda l’effetto, cioè si passa dal comico al disagio fino all’horror.
Allora, cominciamo dall’origine del nome: grottesco. Il nome già comincia come trasposizione ed errore che però alla fine assumono il carattere di rivelazione. Il vero che si annida “embedded”, incastonato, nell’equivoco. L’etimologia e la storia di come il genere è venuto ad acquisire il suo appellativo racchiude in sé il meccanismo e le potenzialità del genere stesso. La parola “grottesco” potrebbe essere considerata una specie di onomatopeia del genere.
Cominciamo allora dalle definizioni: tutti i dizionari e le enciclopedie consultate dicono che il sostantivo “grottesco” deriva da grotta, cioè quello che si riteneva essere il luogo dove erano state rinvenute alla fine del ‘400 alcune pitture murali risalenti all’epoca romana. Queste “grotte” si trovavano nel bel mezzo della zona degli scavi e Roma, città che all’epoca pullulava di pittori ingaggiati dal Papa per adornare centinaia di chiese e dalle famiglie patrizie per abbellire i palazzi nobiliari. Siamo nel 1480, all’apice del potere dei Papi (non del Papi), quindi potete immaginare la centralità di soggetti sacri per chiese e conventi, e mitologici per le pareti dei potenti secolari. Ogni tanto il sacro e il profano si mescolavano, come accade nella Cappella Sistina per le varie Sibille che si ritrovavano tra personaggi biblici e del Nuovo Testamento Comunque potete immaginarvi le torme di poveri pittori costretti a produrre dozzine di scene ripetitive dell’annunciazione, del battesimo di Cristo, della vita dei santi, e malgrado le centinaia di varietà di torture inflitte ai martiri si ritrovavano sempre a dover dipingere un San Sebastiano trafitto da frecce. Quando invece si spostavano alle pareti dei palazzi nobiliari avevano un repertorio potenzialmente più vasto che però poi si riduceva a sfilze di Lede e cigni, Veneri e Marte, Europe e tori.
Secondo l’articolo di Wikipedia sul grottesco, un bel giorno, nel 1480, si sparge la notizia che un giovane romano caduto accidentalmente in una fessura sul versante del colle Oppio si era ritrovato in una strana grotta piena di figure dipinte. Ci immergiamo quindi quasi subito in un’atmosfera fiabesca, in una grotta da mille e una notte. Subendo il richiamo del fascino della pittura, ben presto i giovani artisti romani presero a farsi calare su assi appese a corde per poterle vedere con i propri occhi. Gli affreschi che emergevano dalle ombre furono elettrizzanti per l’intero Rinascimento ma suscitarono anche l’indignazione dei sostenitori di un certo modello classico come Vasari, che le definì “pitture licenziose e ridicule molto.” Questo giudizio negativo era stato espresso in tempi più vicini all’esecuzione delle pitture stesse da Vitruvio, nel primo secolo a.c., nel VII Libro del trattato De Architectura:
Ma quegli essempi, che erano tolte dagli antichi da cose vere, ora sono con malvaggie usanze corrotti e guastati, perché nelle coperte de i muri si dipingono più presto i mostri che le certe imagini prese da determinate cose.
Perché invece di colonne vi si pongono canne et in luogo di fastigi fanno gli arpagineti canalati con le foglie crespe; similmente i candellieri de i tempietti, che sostengono le figure, e sopra le cime di quelli fanno nascere dalle radici i ritorti teneri con le volute, che hanno senza ragioni le figurine che sopra vi siedono. Similmente i fioretti da i loro steli, che hanno mezze figure che escono da quelli, altre somiglianti a i capi umani, altri a i capi delle bestie. Ma tali cose né sono, né posson esser, né saranno giamai.
Perfino Pinturicchio, Raffaello e Michelangelo s’infilarono sotto terra e furono fatti scendere lungo dei pali per poter studiare queste immagini e Raffaello, in particolare, è quello che le ha rielaborate e rese famose, nelle logge dei palazzi vaticani. Come le pitture di animali preistorici dipinti sulle caverne della Dordogne che emanano lo spirito del mondo che definiamo “preistorico” così dalle pareti di quelle “grotte” i pittori ebbero una rivelazione di quello che era stata un’importante stile di rappresentazione del mondo antico.
Molti anni dopo si scoprì che questi dipinti non erano stati eseguiti su grotte bensí sulle pareti di una enorme villa, luogo deputato del divertimento, senza nessuna camera da letto o cucina, la Domus Aurea di Nerone, molto più stravagante del Caesar’s Palace di Las Vegas, tutto un insieme di 300 stanze, diversi ettari di giardino e terreni coltivati a vigneto (la campagna in città, il tutto occupava 2,5 km quadrati) costruita tra il 64 e il 68 , dopo il grande incendio di Roma per ospitare e dar sfogo alle manie di showbusiness dell’Imperatore (Villa Certosa e Palazzo Grazioli non sono che bazzecole al confronto). Sempre rispettando il discorso degli strati, dopo il suicidio di Nerone la Domus Aurea venne restituta al “popolo romano” che giustamente la ricoprì di terra e vi costruì sopra le terme di Tito e di Traiano, l’anfiteatro Flavio, il Tempio di Venere e di Roma e chi più ne ha più ne metta. Così facendo però, inconsapevolmente contribuirono a preservare le pitture murali di Fabullo (o Famullo?)che ricoprivano gran parte della costruzione sottostante.
Nel 1480 nella grotta i romani non avevano riconosciuto la stanza, ma a pensarci bene il concetto stesso di stanza non poteva che derivare, per analogia, dall’esempio della grotta. Possiamo immaginarci in un’epoca remotissima un gruppo di donne, forse 50,000 anni fa, che decide di creare una “caverna” all’esterno, legando insieme dei tronchi d’albero, per proteggersi dalle intemperie mentre vanno a raccogliere bacche e a scavare radici un po’ lontano dalla grotta dove abitano. Così, in questo binomio grotta-stanza si scopre la contiguità, un rapporto metonimico forse addormentato tra questi due elementi che a rigor di logica dovrebbero essere ben lontani. E allora grottesco che in un primo momento sembra una denominazione fallace si rivela invece, per un gioco metonimico, veritiera risvegliando metafore addormentate, secondo la descrizione fatta da Lucie Olbrecht-Tyteca nel libro “Il comico del discorso. Un contributo alla teoria generale del comico e del riso”.
Se per Vituvio lo scarso realismo del genere rappresentava il suo limite più vistoso, il critico russo Bachtin, ne “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”, nell’analizzare il motivo del successo delle pitture grottesche scopre il suo valore di rappresentazione proprio nella sua distanza dalla verisomiglianza:
La scoperta impressionò i contemporanei per il gioco insolito, fantasioso e libero delle forme vegetali, animali e umane che passavano l’una nell’altra e quasi si trasformavano reciprocamente. Non si riscontravano quei confini netti e fissi che separano nel quadro tradizionale del mondo questi “regni della natura”: nel grottesco tali confini erano audacemente superati. Non vi si trovava la staticità abituale della rappresentazione della realtà: il movimento cessa di essere quello delle forme già date — vegetali e animali—in un mondo già dato e stabile, ma si trasforma in un movimento interno all’esistenza stessa e si esprime nella trasmutazione di alcune forme in altre, nell’eterna incompiutezza dell’esistenza. In questo gioco ornamentale si percepisce una straordinaria libertà e leggerezza della fantasia artistica… reso con grande precisione da Raffaello e i suoi discepoli nel momento in cui, dipingendo le logge del vaticano, imita lo stile grottesco.”
E poi approfondisce citando la definizione di grottesco fornita da un altro critico russo, L. E. Pinskij:
Nel grottesco la vita passa attraverso tutti gli stadi, da quelli inferiori inerti e primitivi a quelli superiori più mobili e spiritualizzati, in una ghirlanda di forme separate che testimonia la sua unità. Avvicinando ciò che è lontano, mettendo in relazione ciò che si esclude a vicenda, violando le nozioni abituali il grottesco in arte è simile al paradosso in logica. A un primo sguardo il grottesco in arte è soltanto spirituale e divertente, mentre esso cela tante opportunità”.
“Cela tante opportunità” e questo è un concetto intrigante per la letteratura. Allora se nell’arte figurativa il grottesco consisteva nel mettere in posizione contigua elementi contraddittori e trasformarli poi in altri elementi, creando ibridazioni e forme “mostruose” in letteratura si può fare un discorso analogo, notando che il grottesco funziona come arma di spaesamento e di critica dell’esistente, mette in questione la sua solidità. Ponendo uno accanto all’altro elementi contraddittori ed intrecciandoli per creare un ibrido, proprio come accadeva nelle pitture del IV stile romano, nella letteratura il grottesco crea uno spostamento, uno spiazzamento che induce a non accettare la realtà come fenomeno univoco. Ma questa forma particolare si muove per contiguità. Questo procedimento sembra ancora più rilevante in situazioni in cui all’interno della coscienza dello scrittore e del lettore convivono, in posizione contigua, anime diverse, diverse identità in un bel groviglio gomitoloso, in uno gliommero per dirla con un grande maestro del grottesco italiano, Gadda. E qui naturalmente è chiaro dove stiamo andando a parare: la letteratura scritta da persone la cui identità può racchiudere esperienze di vita in Paesi diversi.
Naturalmente la letteratura italiana “autoctona’ è densa di maestri del grottesco, esiste tutta una corrente di teatro grottesco dagli inizi del 900 agli anni 20 che servì anche da ispirazione per il teatro dell’assurdo. Prima ancora, nell’800 “Le Operette Morali” di Leopardi, pullulano di personaggi e situazioni grottesche utilizzate per ricavare lezioni filosofiche. Letterati come Pirandello e in un certo qual modo anche Svevo fecero largo uso di questa tecnica. Nei maestri del 900 non è forse coincidentale una certa loro marginalità e distanza geografica, rispetto al centro, cioè nella letteratura italiana le rive fatali dell’Arno.
Non c’è che l’imbarazzo della scelta nel caso di Pirandello: centinaia di esempi forniti dallo scrittore siciliano spostato all’estremo sud rispetto al centro. Basta pensare alle situazioni paradossali e grottesche che sono il filo conduttore di Novelle per un anno, e di quasi tutti i personaggi e le situazioni delle sue commedie. È un grottesco che si rifa al relativismo, quindi anche lì alla critica del positivismo e dell’idea solida di mondo.
Un esempio di grottesco dell’estremo Nord dell’Italia potrebbe essere la descrizione finale dell’apocalisse tecnologica prevista da Svevo nella parte finale de La coscienza di Zeno. Il grottesco in chiave tragica viene proposto concatenando con grande maestria tutti gli elementi pertinenti al campo semantico di malattia e di salute, intrecciandoli poi all’idea di arnese, ordigno e arma in una girandola catastrofica:
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Ma nel Novecento italiano, forse l’autore che sperimentò in maniera più consapevole le armi del grottesco, a pari merito con Pirandello, ma iniettandoci una forte dose di barocco, fu Carlo Emilio Gadda. In quel tour de force linguistico, psicologico e storico che è Eros e Priapo, tenta un’approfondita disanima dei meccanismi psicologici che portarono all’affermarsi del fascismo in Italia. L’autore, riproponendo una voce narrante da cronista fiorentino del Duecento, scatena una fiumana incontenibile di virtuosismi plurilinguistici, e concatenazioni governate da elementi metonimici all’insegna di logos ed eros, ricco di riferimenti iconografici:
E chi comanda o richiede il sacrificio agli altri, ha da sacrificarsi per primo: se non nel senso letterale di offrirsi primìpilo allo strale nemico, almeno però nel senso di costruire e vivere dentro di sé l’angoscia, lo sforzo, la verità vera della battaglia. Il solo generale ammissibile è colui che suda sangue. L’inspirazione di chi chiede altrui la vita per buttarla nelle sue scipionate del cacchio, alla conquista dell’inesistente petrolio e del roseo fiore del carcadè, io non ammetto lui la possa toglier su come fece il Pirgopolinice dagli spettacoli e dalle fanfare: l’inspirazione per il comando viene da una dolorosa e perspicace contemplazione del «minor male possibile». Non sono le rubeste cosce de’ giovini, per quanto un po’ pelose, che sfilano con le guide di plotone lungo la riga bianca di Via dell’Impero «in allineamento perfetto» (fotografi e cineoperatori appostati) a dover inspirare la politica d’una nazione che vive difficilmente la sua recente unità nazionale e le sue costose e indigeste «conquiste», vaso di terracotta destinato da Dio a viaggiare in compagnia di vasi di ferro. Questo inspirarsi alle cosce, ai calzoncini corti, a’ bei deretani mantegneschi degli òmini e de’ cavalli, è Eros ginnico e pittorico e se tu vuoi mantegnesco, non Logos politico. Amo il Mantegna degli Eremitani e ammiro il suo crudele vigore (pittorico) e i suoi esecutori di giustizia, ma non provocherei una guerra per procurarmi la soddisfazione sadica ed omoerotica di buttarvi a morire i figli di quelle… a cui si è largito il premio nuziale perché facessono figli: figli, figli, figli, tanti figli, infiniti figli, da mandarli a morire nella guerra, guerra, guerra, guerra, contro i «delitti delitti delitti della Inghilterra Inghilterra Inghilterra Inghilterra».
Spostandoci dall’Italia, una delle ultime nazioni europee a costituirsi come stato, vediamo che il grottesco riveste una grande importanza nella letteratura anti e post-coloniale, e, non a caso, proprio perché in quelle situazioni in cui si intersecano e s’intrecciano i vari filoni della coscienza e dei punti di vista, da asservimento a ribellione, da hubrys a umiliazione, eroismo e tradimento mentre la storia si affaccia anch’essa a volte come personaggio. Per illustrare questo, l’incipit del romanzo di Salman Rushdie “Midnight’s Children” (I figli della mezzanotte) che viene considerato un modello della letteratura postcoloniale, spesso inserito nella categoria del realismo magico, ma che è retto da un forte impianto del grottesco:
Io sono nato nella città di Bombay… tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947. E l’ora? Anche l’ora è importante. Be’, diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi… Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro; nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza, io fui scaraventato nel mondo. Ci fu chi boccheggiò. E, fuori dalla finestra, folle e fuochi d’artificio. Pochi secondi dopo, mio padre si ruppe un alluce; ma questo incidente era una bazzecola se paragonato a quel che era accaduto a me in quel tenebroso momento: grazie infatti alle tirannie occulte di quelle lancette dolcemente ossequianti, io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese. Nei tre decenni successivi non avrei avuto scampo.
A partire dall’incipit la potenza del grottesco sorregge l’intero romanzo e contribuisce a scongiurare quella che sarebbe potuta essere una visione granitica di quel momento storico e dei personaggi che l’hanno vissuto. C’è un costante intersecarsi tra “momento storico” della nascita dello Stato India e “momento della nascita” del protagonista convogliato nell’unione delle lancette in segno di preghiera, allusione a una visione stereotipata del “cerimonioso”popolo indiano, che si intreccia a reminiscenze dell’incipit di romanzi inglesi del 700 come Tristam Shandy, anch’esse improntate a delle nascite un po’ irregolari con sfilze di trovatelli, orfani, etc. Mi ha fatto venire anche in mente la lettura di Karim [Metref] della nascita del personaggio di Fatima, la quale, una volta appurata la mancanza di attributi virili, viene salutata con sospiri di delusione e sputi dagli astanti, e poi, relegata in un angoletto. Infine, recuperata ad una pallida manifestazione di amore, riceve il nome Fatima dalla zia divorziata.
La presenza del corpo, quello che Bachtin chiama il basso materiale corporeo, salta agli occhi nel racconto “Domino”, di Julio Monteiro Martins scrittore ibrido brasiliano-italiano, ma a differenza del carnevalesco gioioso dell‘epoca di Rabelais si risolve in una versione horror novecentesca del carnevalesco, prefigurando un mondo nel processo di divenire, attraverso un botto/vendetta in cui una specie di “male ingenuo” trionfa su un male più ragionato. Il racconto ha come protagonisti due esseri che per nascita si trovano agli antipodi della scala sociale (almeno in apparenza), Herbert, nipote del notaio che muore prima di cadere in rovina, e il figlio di una prostituta nera, “nato prematuro e orrendo, vittima di un infortunio ostetrico, a metà tra il parto e l’aborto”. I due crescono , l’uno alto e pallido come la madre, l’altro scuro, “barilotto di un metro e mezzo’ e ‘scimunito, soprannominato “Boloto”. Il degrado che segnava l’inizio della vita di Herbert s’intensifica grazie alle attività poco raccomandabili della madre, cioè il vizio del Domino (capovolgimento grottesco del topos del figlio dissoluto) che costringe il figlio al doppio lavoro di tassista e clown presso un bordello/ cabaret, dove è noto con il nome di Simplicio e apprezzato per sconce performance, tra cui l’offerta ai clienti di un enorme cobra, estratto dai pantaloni di raso rosso. Boloto è vittima delle angherie di Simplicio, nonostante l’ammirazione che nutre per il suo carnefice e nella scena finale dopo aver subito le percosse e minacce di Simplicio (non riconoscibile come Herbert perché indossa ancora i panni del cabaret), mentre quest’ultimo è addormentato, ubriaco sul volante, dopo aver come il solito lustrato il taxi, Bolota apre il serbatoio, vi introduce una miccia e poi appicca il fuoco, allontanandosi. L’auto esplodendo fa un botto, “un’enorme carcassa nera in fiamme, che sputava fuoco da ogni fessura”. Quest’immagine richiama quelle figure di area spagnola come “El toro de fuego” di ferragosto, spettacolo destinato ai bambini, in una specie di addestramento soft alla pirotecnica, mentre a mezzanotte, i bimbi mezzo addormentati sulla spalla del papà lanciano gridolini misti di paura e di meraviglia, ed è con questa bambinesca meraviglia che i turisti ubriachi assistono alla tragica fine del clown.
È ancora la struttura del grottesco a sostenere l’impianto dell’ultimo romanzo dello scrittore statunitense/dominicano Junot Diaz, “ La breve favolosa vita di Oscar Wao”, vincitore del premio Pulitzer del 2008. Anche qui il personale e il politico si intrecciano in fantasiose configurazioni che scavano nel profondo dei rapporti di potere tra uomini e donne, tra dittatore e popolo, tra azione umana e destino, tra amore e logica. Anche qui nell’incipit, la voce narrante che sarebbe quella di Yunior de las Casas, un amico bellimbusto e un po’ scapestrato, nonché aspirante scrittore, dà subito prova dell’importanza degli accostamenti tipici del grottesco presentando subito il fukù, fenomeno che gironzola tra i continenti e le epoche, quella che sarà una disumana eminenza grigia per tutto il libro:
Dicono che sia venuto dall’Africa, racchiuso nelle grida degli schiavi; che fosse l’anatema finale degli indiani Taino, pronunciato mentre un mondo moriva e un altro nasceva; o che fosse un demone, penetrato nella creazione attraverso la porta dell’incubo dischiusa alle Antille. Fukú americanus, o più colloquiamente fukú: usato in genere per indicare qualche tipo di maledizione o sventura, in particolare la Maledizione e la Sventura del Nuovo Mondo. Chiamato anche il fukú dell’Ammiraglio, perché l’Ammiraglio fu al contempo la sua principale levatrice e una fra le sue vittime europee più importanti; malgrado avesse “scoperto” il Nuovo Mondo, l’Ammiraglio morì povero e sifilitico, ossessionato da (dique) voci divine. A Santo Domingo, la terra che Amava di Più (quella che Oscar, verso la fine, avrebbe chiamato la Ground Zero del Nuovo Mondo), il nome stesso dell’Ammiraglio è diventato sinonimo di entrambi i tipi di fukú, piccolo e grande, pronunciare quel nome ad alta voce, o anche solo sentirlo pronunciare, significa attirare la sventura su di sé e sui propri cari.”
La voce narrante sottolinea lo scarto tra la storia spicciola che riguarda la vita di chi non ha potere e la Storia dei grandi facendo largo uso di altisonanti maiuscole che spesso vengono contrapposte a una specie di presa di distanza sprezzante e scaramantica da parte di chi non ha potere. Mette in contatto concetti del passato come la “scoperta” dell’America, con concetti del presente come il “Ground Zero. Il Fukú diventa l’elemento comune, nato dalla fusione dei destini dei potenti e dei piccoli e che perseguita entrambi in tutti i tempi.
Per intrecciare le complesse fila che costituiscono l’identità in un soggetto migrante anche lo scrittore algerino/italiano Amara Lakhous ricorre con grande perizia alle capacità del grottesco. In “Scontro di civiltà per un ascensore in un palazzo di Piazza Vittorio”, l’autore richiama per l’uso della cornice del giallo e l’interrogatorio il romanzo di Gadda “Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana”, tenta un plurilinguismo che forse non sempre riesce e che non raggiunge i risultati di Gadda, ma aggiunge un elemento interessante: il controcanto del migrante consapevole della sua coscienza divisa e ricostituita. Opera una sorta di commistione tra elementi che richiamano l’origine nazionale del personaggio che a questo punto sono multiple e la sua condizione selvatica (forse uno strale lanciato al concetto di civiltà) esprimendosi come ululato (altro elemento di ironia grottesca è che alla radice del delitto sta un elemento addomesticato, cioè il cane e non il lupo). In una serie di 10 ululati, che costituiscono una specie di diario/a parte verso il lettore il personaggio del migrante cosciente parte da un atteggiamento conciliatorio che si trasforma man mano in un crescendo di disagio riproducendo sia l’ululato delle donne algerine (che appare la prima volta in una bellissima sequenza sul concetto di mascolinità e le aspettative che esso innesca nel mondo arabo) che l’ululato del lupo. Ma non è il solito lupo delle foreste, per contiguità diventa la lupa romana, simbolo di una civiltà che dopo averti allattato potrebbe anche sbranarti (infatti il titolo con cui è uscito il libro in Algeria era “Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda”, mentre il titolo italiano fa occhiolino al lessico giornalistico adoperando l’espressione scontro di civiltà). Nel corso del nono ululato, Ahmed/Amedeo riflette:
“… A quel punto mi sono ricordato quello che mi ha detto Riccardo il tassista, “Amedeo tu sei stato allattato dalla lupa!” Ormai conosco Roma come come se vi fossi nato e non l’avessi mai lasciata. Ho il diritto di chiedermi: sono un bastardo come i gemelli Romolo e Remo oppure sono un figlio adottivo? La domanda fondamentale è come farmi adottare dalla lupa senza che mi morda? Adesso almeno devo perfezionare l’ululato come un vero lupo: Auuuuuuuuuu!”
In una commistione grottesca che accosta animali e tradizioni diversi intitolato Ultimo ululato/prima che il gallo canti, un Ahmed/Amedeo un po’ ammaccato supplica quella che potrebbe essere una figura mista tra la sua defunta amata Bagia, una musa, la lupa che ormai l’allatta e Shahrazad di insegnargli l’arte di sfuggire alla morte, alla rabbia, all’odio e forse alla memoria.
La recente piece di Christian De Caldas Brito, apparsa nell’ultimo numero di El Ghibli, ambientata all’aeroporto di Fiumicino vede come protagonista il romanissimo poliziotto Ubaldo alle prese con una serie di migranti d’eccezione che comprendono un drago fuggito da una tela di Paolo Uccello e che riapproda in Italia dopo essere scappato da un museo inglese per sfuggire alle persecuzioni di San Giorgio, unicorni usciti da arazzi francesi, mostri giapponesi del vento e del tuono (tutti orrendi e spaventosi ma regolarmente in possesso di documenti) seguiti poi da una sfilza di “normalissimi” aspiranti immigrati non regolari, ma necessari e forse in fondo anche apprezzati. Dopo qualche esitazione, in preda a un raptus di accoglimento, il buon Ubaldo appone visti di ammissione senza distinzione, a tutti. L’autrice mette in evidenza attraverso l’arma di un grottesco sia fisico che ragionato l’assurdità dell’attuale situazione esacerbata dalle disposizione del pacchetto sicurezza. Nella sua piece, l’autrice spaesa ulteriormente il lettore spostando la scena dagli sbarchi dal mare a quelli all’aeroporto, risvegliando anche lì la metafora della parola sbarco, e allontanando il momento in cui riconosciamo che si tratta di un discorso sui respingimenti in chiave grottesca. Anche qui il grottesco funziona per contiguità in una specie di crescendo questa volta dettato dalla fila davanti allo sportello dell’aeroporto.
Gli esempi di grottesco utilizzati da scrittori migranti in Italia sono innumerevoli: Igiaba Scego, Gabriela Kuruvilla, Gabriela Ghermandi, Hamid Barole Abdu, Yousef Wakkas e innumerevoli altri padroneggiano con grande maestria il genere e costituiscono una base robusta e sofisticata su cui poggiare creazioni future che vogliano confluire in uno sforzo comune di critica e resistenza all’esistente.
Come suggerisce il professor Fulvio Pezzarossa, anche lui presente ai Seminari, la propensione per il grottesco potrebbe anche essere vista nell’ottica del trickster, cioè quelle figure che richiamano Mercurio, che esistono in tutte le culture ( e sono state maggiormente esplorate per quanto riguarda le culture indigene dell’America del Nord). Queste figure fungono da messaggeri tra il mondo dei morti e dei vivi, il mondo degli umani e quello degli dei, etc. Nelle sue duplici realtà lo scrittore/scrittrice migrante potrebbe fare da messaggero tra la sua cultura di origine e quella di approdo, arricchendo entrambe e conferendo alla scrittura un certo sapore carnevalesco.
Dopo aver parlato del grottesco logica vorrebbe che si parlasse del brutto, del deforme, del mostruoso, le cui profondità sono state scandagliate a livello iconografico e filosofico da Umberto Eco qualche anno fa nel libro “Storia della bruttezza”. Ma no, se nella prima storia esemplare si è parlato dell’arma del grottesco, delle sue radici italiane e delle caratteristiche che la rendono adatta a demistificare l’assetto presente del mondo, nella seconda storia si prende in esame il concetto di Bello in relazione alla terra in cui abitiamo, particolarmente a come si manifesta a livello del quotidiano.
Lasciando da parte l’attualità che esprime a livello estremamente ripugnante il grottesco, come per il primo racconto si dovrebbe partire dai mattoncini costitutivi, e partire dall’area geografica che vogliamo considerare come bersaglio della critica. Mi sono messa a pensare ai diversi nomi che vengono dati alla penisola, il più diffuso è il Belpaese (tanto da diventare anche il brand name di un formaggio), e poi incrociandolo con vari altri Paesi dell’immaginario letterario come Il Paese delle Meraviglie o il più nostrano il Paese della Cuccagna mi è venuto fuori Il Paese della Bella Figura, un concetto profondamente radicato nella cultura italiana e recondito motore di molte azioni delle italiche genti, cioè la “preoccupazione” e per alcuni l’ossessione di fare Bella Figura.
Ma è forse scavando nella genealogia della tensione tra i due concetti di BelPaese e Paese della Bella Figura che si potrebbe arrivare a una qualche illuminazione.
Discendente della famiglia Bel Paese è per esempio la Sindrome di Stendhal, un fenomeno che si registra esclusivamente in Italia, una specie di novella malattia DOC, che colpisce il turista sopraffatto da ardori estetici, dall’ammasso di opere artistiche generosamente distribuite su tutto il suolo italico. Naturalmente questo avviene molti decenni dopo il tentativo di Totò, che nel film Guardie e Ladri interpreta una sedicente guida turistica, di vendere al turista e benefattore italoamericano venuto in Italia per implementare il Piano Marshall dei falsi sesterzi romani ritrovati “per caso” tra le rovine del foro imperiale. Bofonchiando tra sé e sé in riferimento al patrimonio monumentale, Totò le definisce “ste macerie” mettendole così subito in relazione alle molte macerie presenti nell’Italia del dopoguerra, un grottesco al servizio della contiguità fisica tra macerie del mondo antico, denominate ruderi e scavi archeologici e le macerie, nome meno glorioso per i resti della distruzione della seconda guerra mondiale.
Una scena di questo genere sarebbe impensabile in questi ultimi anni in cui tutto il patrimonio artistico viene vissuto come grande fonte di orgoglio,e in cui gli autoctoni registrano lo scarto tra l’apprezzamento del turista per questo patrimonio e una presunta indifferenza, se non disprezzo, verso di esso da parte dei migranti. Questo sentimento poco ossequioso verso il passato dell’Italia ha nutrito le prime avvisaglie del cosiddetto “scontro di civiltà” circa dieci-dodici anni fa, generando le indignate invettive di Oriana Fallaci scagliate contro le torme di immigrati pisciatori su questo patrimonio, o per dirla in favella toscana che “orinano sui monumenti”.
Naturalmente come ha sottolineato, il giornalista Daniele Barbieri nel corso del Seminario, il fatto che in città come Milano siano state organizzate delle giornate di scoperta del patrimonio artistico rivolte esclusivamente agli immigrati e che queste iniziative abbiano avuto grande successo e apprezzamento da parte di questi ultimi non ha trovato nessun riscontro nella stampa, quindi non esiste. Vive solo l’immagine del migrante che piscia sui monumenti, cosa di cui venivano accusati anche gli italiani che migravano all’estero.
Un componente della famiglia Bella Figura, forse un nipote, è la Bella Presenza che senza alcuna remora è spesso indicata come requisito esplicito nella descrizione di proposte di lavoro. La sorellastra della Bella Presenza, in verità figlia naturale del Bello, in questo momento abbagliata dai riflettori della cronaca, è la Ragazza Immagine, però “de eso no se habla”. Le origini di questa attualmente malvista prole non sono chiare. Tra i maligni vi è chi sostiene che sia figlia dell’Italian Design, ramo spurio del Bello, avente forse origini straniere come indicato dal nome, sviluppatosi in maniera eclatante negli anni 70 e concentrato a Milano e che riempie le italiche casse facendo la parte di leone nell’export di prodotti italiani.
Poi da qui il saggio esplora altre parentele del Bello tra cui l’Ordine, parola che purtroppo adesso invoca a viva voce la cugina Sicurezza, con risultati disastrosi per la libertà e in questo momento particolarmente per gli immigrati, che vengono additati come minaccia verso di essa.
Dopo questo breve excursus nella Bella Figura ci spostiamo a un personaggio che nonostante le radici italiche è in apparenza completamente avulso al concetto del Bello e della Bella Figura: il tenente Colombo, personaggio di detective italo-americano amatissimo dagli italiani insieme al più nostrano prete detective Don Matteo (interpretato dal venezianissimo Mario Girotti sotto le mentite spoglie dell’americano Terence Hill e che nell’ultima settimana è riuscito a battere Santoro come share di audience, ma un personaggio come lui merita tutto un discorso a parte che bisognerà fare in futuro).
Anche chi ha visto poche puntate non può dimenticare il Tenente Colombo: impermeabile spiegazzato, capigliatura disordinata e con taglio approssimativo, sguardo un po’ sbilenco specialmente quando l’espressione si acciglia nello sforzo di capire (in verità l’assimmetria è dovuta al fatto che ha un occhio di vetro). Arriva sulla scena del delitto in una macchina veccchia, sporca e scassatissima e questo esordio in genere fa più da biglietto di visita che il suo distintivo della Los Angeles Police Department.
È talmente amato dai telespettatori e non soltanto italiani, che è spuntato alcuni anni fa anche nel film di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino” assieme alle poesie di Rainer Maria Rilke e i due angeli Damiel e Cassiel. In quel film interpreta sé stesso (cioè l’attore Peter Falk ma in realtà è indivisibile dal personaggio) in una storia secondaria in cui Falk arriva a Berlino per girare un film sui nazisti e durante la storia si scopre che in passato era anch’egli un angelo, che decise di rinunciare alla sua immortalità per poter partecipare e vivere il mondo e non semplicemente osservarlo.
Ci si potrebbe chiedere perché proprio lui, ma il nesso con i discorsi precedenti c’è eccome. Chi ha seguito le avventure del Nostro sa che l’ordine di presentazione delle fasi di scoperta del colpevole del delitto vengono capovolte. Di solito il lettore o telespettatore non sa chi ha compiuto il delitto e lo scopre assieme al detective, o se molto perspicace prima ancora del detective, in base agli indizi che vengono man mano scoperti.
Nei telefilm di Columbo, il procedimento è inverso: cioè nella prima scena assistiamo all’assassino che compie il delitto, lo vediamo poi manipolare l’ambiente in modo che possa fuorviare le indagini, poi lui o lei stessa o altri chiamano la polizia ed entra il scena il detective Columbo. Il telefilm è ambientato a Los Angeles ed è essenziale notare che gli ambienti in cui avvengono i delitti sono sempre quelli delle classi alte: si tratta di direttori di orchestra, mecenati e filantropi, membri dell’alta finanza, ereditiere, gente che siede in 10 consigli di amministrazione, scrittori affermati e non affamati, insomma, il Bel Mondo di Los Angeles. Le case sono palazzi, vi si accede attraverso sontuosi cancelli e molte sono circondate da parchi enormi, nei quali non è difficile nascondere l’arma del delitto. Naturalmente per questi assassini niente di più spiazzante e nello stesso tempo rassicurante che l’arrivo di un detective dall’apparenza stracciona, impacciatissimo nei loro ambienti e che rivolge loro domande in apparenza stupide e che sembrerebbero indicare grande ammirazione per le loro competenze e la loro ricchezza. Bisogna anche tenere conto che questi telefilm sono stati girati alcuni anni prima del radicamento totale della cultura delle celebrities e prima che con i reality shows e YouTube chiunque lo voglia può con qualche sforzo e una bella dose di fortuna può trasformarsi in Star. Almeno così dice la leggenda.
Ritornando al Tenente Colombo: sotto le spoglie dell’incapace si nasconde una mente acuta (il famoso contadino, scarpe grosse ma cervello fino) che fa della sua stracciataggine una strategia, cioè gioca psicologicamente sul rendere sicuri i colpevoli perché nella noncuranza verso un essere a loro inferiore si tradiscano, gli permettano di guadagnare tempo, raccogliere indizi e testare le sue teorie. Una specie di tormentone è la sequenza in cui sta per andarsene, si ferma sulla porta e dice al colpevole “And one more thing!” Ancora una cosa”, che di solito è l’elemento fatale snocciolato lì come se fosse una cosa da niente.
Quindi sono in gioco la hubrys delle classi alte/colpevole e lo spirito di osservazione/astuzia del subalterno che alla fine provoca un ribaltamento nelle posizioni di potere/conoscenza. Vi è inoltre un elemento di disprezzo verso l’emigrante, solo che il pubblico italiano non identifica Colombo come appartenente alla categoria “emigrante di seconda generazione”, proprio come fatica a individuare in Tony Manero il figlio dell’emigrante italiano.
Riflettendoci la cosa che mi colpisce è l’analogia alla situazione tra “autoctoni” e “migranti” oggi in Italia, con l’autoctono nelle vesti del potente, del sapiente e il migrante nelle vesti dell’investigatore, perché, in realtà essendo straniero deve capire su che territorio sta operando. Il tutto viene poi complicato dall’inclinazione di gran parte degli italiani a creare ambientazioni che non poggiano sul reale, governate spesso dalla legge della Bella Figura, la tendenza a spettacolarizzare. Analogo naturalmente al tentativo del colpevole di inquinare le prove e manipolare la scena del delitto. Proprio come il tenente Colombo il migrante si trova allora a dover raccogliere indizi in un ambiente poco affidabile ed irto di inganni. Per motivi spesso legati a ignoranza e convinzioni della superiorità della propria estetica da parte dell’autoctono, il migrante viene fortemente sottovalutato, sminuito, trattato insomma come viene trattato Colombo dal criminale.
E qui sta uno spiraglio di creatività che si apre allo scrittore migrante: dal suo osservatorio speciale può raccogliere indizi e scrutare il territorio con uno sguardo che è negato all’autoctono, può dispiegare la propria conoscenza arricchita dall’aver fatto parte anche di altri mondi e di subire all’interno della sua coscienza mini scontri di placche tettoniche come diceva ieri Julio). La scrittura che ne deriverebbe potrebbe essere utile sia alla categoria migrante che a quella autoctona, anche se magari è difficile pensare di voler regalare qualcosa a chi ci maltratta.
L’osservatorio speciale garantito da questa estromissione contiene le potenti lenti del grottesco, uno strumento che consente non solo di scavare ma anche di mettere uno accanto all’altra elementi eterogenei, creando immagini che sono negate a chi è del posto.
E chissà che alla fine l’autoctono non impari ad apprezzare?
Di buon auspicio è la simpatia che il pubblico italiano nutre per Colombo, al punto che non riesce a distinguere tra personaggio ed attore e a viva forza vuole proclamare italiano anche chi lo interpreta. lnfatti spulciando in Internet ho trovato diversi post italiani di qualche anno fa che citano articoli in autorevoli quotidiani secondo cui il vero nome dell’attore Peter Falk è Nick Longhetti.
È quasi commovente la risposta degli agenti di Peter Falk alla lettera di Edoardo Tiboni, direttore del Media museum di Pescara pubblicata online il 25/09/2007 da Prima da noi it, il primo quotidiano online dell’Abruzzo:
«Gentile Peter Falk, nel porgerle i nostri sinceri auguri per i suoi ottant’anni, cogliamo l’occasione per chiederle di sciogliere un dubbio sulle sue origini: italiane o polacche da parte di padre e russe da parte di madre come hanno riportato i giornali italiani in questi giorni?A Pescara abbiamo da qualche anno aperto il Mediamuseum-Museo nazionale delle arti dello spettacolo da noi fondato e nel quale una sezione è dedicata a personaggi del cinema d’origine italiana.
Vorremmo pertanto avere un chiarimento da lei. Se poi le sue origini fossero realmente italiane saremo lieti di ospitare nella nostra struttura qualche suo cimelio.
Fiducioso in una sua comunicazione, le rinnoviamo i nostri auguri e molto cordialmente la salutiamo».
Risposta dell’ufficio di Peter Falk:
Contrariamente a quanto si dice, Falk non è italiano. “Colombo” è sì personaggio italiano ma Peter è di discendenza ungherese. Il cognome della madre è Hockhauser, quello del padre Falk. Entrambi sono ebrei».
E, aggiungiamo, Nick Longhetti è un memorabile personaggio interpretato da Falk nel film “Una moglie” di Nick Cassavetes.
Questo accadeva qualche anno fa, prima che Peter Falk fosse colpito da Alzheimer e fosse notato a vagare per la città come un vero barbone, non un fittizio tenente trasandato. È di giugno di quest’anno la notizia che il tribunale lo ha affidato alle cure della seconda moglie che da ragazza di cognome faceva Danese (questa sì forse di origine italiana) dopo una contesa legale tra la figlia adottiva e appunto la seconda moglie.
A me rimangono in mente le immagini di un Tenente Colombo vagante senza memoria, o con la coscienza dispiegata in un mondo parallelo e a noi inaccessibile, per le apocalittiche strade di Los Angeles, quasi emblematico della condizione di rimozione della memoria da parte di molti italiani rispetto all’emigrazione italiana all’estero. O forse emblematico di una più diffusa perdita di bussola che forse attraverso la scrittura, procedendo a tentoni e affidandoci alle capacità del grottesco potremmo tentare di recuperare.
E per concludere, parlando di bussole perdute vorrei leggervi una mia poesia che parla di un fatto reale, accaduto nel Mediterraneo qualche settimana prima che venisse approvato il pacchetto sicurezza.
Chi sommersa chi salvato
In the beginning there was a river. The river became a road and
the road branched out to the whole world. And because the road
was a river it was always hungry.
Ben Okri (The Famished Road)
Quando nella foga della fuga
Il cavo di mano ti sfugge
E tra i flutti scivola
Il corpo che agile, un tempo,
Sulla terra vagava
Ora annaspa come di creatura
Per altri moti evoluta
E i compagni invano
Si tuffano, l’acqua la mano
Sottrae
E il corpo
Affonda
Esat Ekos
Eco di un tempo
Non lontano
Chi sommersa
Chi salvato
Chi sommersa chi salvato
Chisommersachisalvato
Mentre nella candida Europa
Scaricabarilano
E il pio capitano
Asik Tuygun
“Mamma li Turchi”
Che raccolgono africani
Vaganti per il Mediterraneo
A poppa in un sacco alloggia
Che il vento talvolta sconquassa
La tua conchiglia
Perché i gabbiani non l’abbiano
A beccheggiare
E le sia data degna
Terrena sepoltura
Perché non s’inabissi
La pietra dello scandalo
Perché un fratello disperato
Non abbia a spiegare
Che la sorella
Il mare se l’è rapita
Almeno che la terra l’accolga
Secondo il nostro rito
Lasciate che l’accompagni
Nel suo ultimo viaggio
Che il salvato renda onore
A chi la strada ha divorato.j
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