Un periodo in cui mi vengono più domande che risposte, e sono ben consapevole di non essere la sola. Il 2015 si è aperto a Parigi con un gran botto la cui natura rimane ancora molto difficile da decifrare, seguito da un grottesco tentativo da parte delle elite politiche e finanziarie mondiali (non a caso in prima fila quelli macchiati di grossi crimini contro l’umanità, solo per citarne qualcuno, Bibi Netanyahu e Christine Lagarde) di appropriarsi di forme che da centinaia di anni rappresentano il modo preferito dai popoli, quando possibile, di esprimere protesta e rivolta. Avendo imparato la lezione di Seattle e di Genova, queste elite sono adesso solite incontrarsi in località lussuose ed isolate, tipo Davos, ma subito dopo il botto, eccoli invece tutti insieme, nella piazza della vecchia capitale culturale europea, a offrire un’immagine di sé militante con un “cuscinetto” di vuoto di sicurezza tra loro e il popolo. Chiaramente a livello visivo eccoli in veste di agguerriti “capipopolo” pronti alla difesa delle eccelse vette raggiunte dalla civiltà occidentale.
Sin dall’inizio della vicenda, la risposta istituzionale si è servita di modalità elaborate dal basso nei social media, lanciando campagne su Twitter riesumando la struttura di uno slogan che stentatamente mi riaffiorava nella memoria. Poi improvvisamente il flash: dalle nebbie del passato, riemerge l’anno 1989, fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie per “I versetti satanici”, il distintivo “I am Salman Rushdie” fabbricato in modo artigianale da vari “politicos” della San Francisco Bay Area. E’ stato indossato per mesi agli inizi degli anni di “latitanza” dello scrittore da migliaia di persone, almeno neli Statu Uniti. Lui era sparito, ma ricompariva in migliaia di persone, in luoghi diversi, incarnato ubiquamente in chi sdegnato dalla fatwa proclamava “I am Salman Rushdie”.
Ma nonostante questi tentativi di appropriazione quasi 30 anni dopo, la campagna dei Charlie ha fatto scattare anche tanti voci di opposizione particolarmente attente ai tentativi di strumentalizzazione e a tenere distinte questioni di classe, colonialismo, razzismo da quel tentativo di far confluire tutto nel grande amalgama della superiorità della cultura occidentale, paladina di diritti e libertà universali. Adesso quel “Je suis…” è diventato la prima parte di varie rivendicazioni di appartenenze di oppressi: Baga, Gaza, Ayotzinapa, etc.
Con tutta la complessità che ci troviamo davanti non è poca cosa cercare di dipanare la matassa. Già a partire dal 2011 si sono profilate grandi divisioni tra quelle forze che una volta si chiamavano “il movimento” e il cui ultimo grande momento di unità sono state le manifestazioni contro l’occupazione dell’Iraq nel 2003. Molti dei disaccordi emergono da modi diversi di porsi davanti alla realtà e valutarla: manipolata o genuina? (il pirandelliano realtà o finzione?) E noi dal basso, come ci rapportiamo ai movimenti delle masse degli altri? Le guardiamo con l’occhio della geo-politica, attenti a non farci fregare? Cerchiamo di capire le varie compagini e fasi? E se non rispondono a requisiti di laicità? E se non vincono subito ma seguono sentieri tortuosi? La cosa diventa ancora più complicata se oltre a capire la realtà, da poeta ci si deve misurare con questioni di immaginario e di arte che programmaticamente vuole unirsi a correnti di cambiamento non semplicemente retorico.
Martedì scorso, a una proiezione di “Io sto con la sposa”, il giovane giornalista e regista Gabriele del Grande ha utilizzato una potente metafora per descrivere il tentativo compiuto dal progetto di spostare l’estetica e l’occhio con cui si riceve la questione “migrazione”. Da una di “emergenza” nazionale, gestita per Fortress Europe da attempati tecnocrati il terzetto dei registi è voluto passare a una visione di di giovani provenienti dalle varie coste del Mediterraneo, nord, sud, est, ovest che insieme, in combutta, creano un’immagine di bellezza, “la sposa” (non esattamente in accezione tarantiniana) e la spostano tra i confini burlando il sistema. Sono abili a muoversi come gruppo/comunità tra gli interstizi utilizzando capacità tecnologiche e poesia per inventare un modo nuovo di stare insieme, con rispetto reciproco e complicità nel mondo. Mi sono sentita molto vicina ai sogni di questi ragazzi e ragazze, il solco che stanno tracciando mi riempie di speranza, nonostante i presagi poco piacevoli dell’inizio dell’anno.
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