La pesante pioggia tropicale si fermò all’improvviso, e un attimo dopo già cinguettava nuovamente accanto alla mia finestra, tra i rami dell’albero della guaiava, quello strano uccello marrone dal petto giallo, che i nativi chiamano Ben Tivì.
Il suo nome onomatopeico suona perfettamente come le tre note distinte e potenti che emette, l’ultima più lunga e acuta delle prime due. Il canto del Ben Tivì sarebbe rimasto dentro i miei sogni come un marchio, una cornice indefinita, di quel traumatico seppur breve periodo della mia vita.
Non c’è dubbio su quanto quell’esperienza sia stata sconvolgente, perché mi accade a volte di svegliarmi nel bel mezzo della notte con – in sogno – il canto di quell’uccello, mentre lo cerco invano dentro una grotta vegetale di grandi felci, liane, orchidee. Questo spavento non aiuta tuttavia la mia memoria a ricordare in modo ordinato la sequenza dei fatti accaduti tanto tempo fa, in quell’anno mirabilis, il 1968, che a mia totale insaputa si spingeva a cambiare il mondo, mentre io ero isolato con i miei nelle montagne piovose dell’Itatiaia, dentro un bozzolo verde scuro di vegetali odorosi, gremito di farfalle e di colibri che tutto il giorno gironzolavano attorno alle nostre teste.
Memorie del ’68 meno ’68 di così non si può, a meno che io non mi debba considerare ora un ecologista coatto ante litteram. Tanto di quegli eventi è stato bloccato, rimosso, che il meglio che riesco a ravvisare e a narrare in questi appunti tardivi è un unico frammento, un coccio, un giorno. Avrà il lettore la pazienza e la fantasia degli archeologi, che da una scheggia ricostruiscono un orcio della Tessaglia illustrato da una scena bucolica o lussuriosa?
Quel coccio, quello della mia memoria, non è tuttavia innocente. Uno dei suoi lati offre un volto di donna. L’altro è incrostato di fango, e ancora più fosco, sotto: l’immagine è tetra, definita da un tracciato energico.
E quando l’immagine si spegne, o si nasconde, rimane il cinguettio del Ben Tivì, il piccolo dio invisibile, onnipresente, che ha fatto dei miei nervi un nido, per sempre.
Avevo allora tredici anni. Mio padre, chimico in un laboratorio svizzero, si era trasferito alla filiale della ditta nell’Itatiaia, montagne costiere sudamericane, per impiantare un nuovo reparto industriale destinato alla produzione di antibiotici a largo spettro.
Il suo lavoro avrebbe dovuto durare un anno, ma in soli otto mesi il nuovo reparto era già operativo, e i miei poterono ritornare nella nostra Lugano, dove il pregnante ’68, in verità, non riuscì mai a fuoriuscire dagli schermi televisivi per le strade e nelle case. Così, devo ammettere che se anche fossi rimasto in patria, avrei comunque perso quella grande scossa storica.
La ditta ci offrì allora una bella casa, circondata da una veranda, in mezzo a un sítio di cinque mila metri, che per la varietà di piante e frutti plagiava il paradiso di Adamo prima dell’avvento del Peccato Originale.
La scoperta del peccato, a proposito, peccato mio e altrui, è proprio la materia di questi appunti. Che nessuno fraintenda: i tropici producono un tipo di peccato inimitabile – in delizia e in malignità. L’angelo che ha scacciato Adamo gli ha dato anche una nuova residenza sorvegliata a Lugano, a Nagoya, a Minneapolis, dove non ha più potuto peccare come prima. Ma ormai sapeva di cosa si trattava, possedeva la memoria dell’endorfina, per la gioia e la fortuna delle compagnie aeree.
Nel nostro sítio era venuta a lavorare Carminha, come aiutante della mamma nelle pulizie e nella cucina. Allora aveva sedici anni. Era l’essere più bello che io avessi mai visto. E ancora oggi provo brividi solo nel rievocarla, e non esagero se affermo che è tuttora la cosa più bella che abbia mai visto in vita mia. Parte del mio trauma avvenne proprio per la sua bellezza. Sospetto addirittura che sia lei il Ben Tivì incantato che non riesco mai a individuare tra le felci delle mie notti madide.
Carminha è entrata ed è rimasta nei miei occhi e nei miei sensi, in quell’umida e tiepida Itatiaia. Poi, lungo i decenni, sono entrate la Vittoria Regia, la Vittoria di Samotracia, l’aurora boreale, tutto l’Hermitage, Sophia Loren, La Dama con l’Ermellino, Naomi Campbell, Siena, Kioto, Liv Tyler e l’inizio dell’autunno nel Vermont. Alla fine è rimasta solo Carminha. Solo lei.
Mi ricordo di Carminha con un coltellaccio mentre tagliava la carotide di un pollo che si sbatteva in terra, mentre lei reggeva con energia la sua testa e faceva sgorgare tutto il sangue dentro un piatto fondo. Con quel sangue lei avrebbe preparato il molho pardo, il sugo spesso e nutriente che tanto piaceva a mio padre. E mentre la vedevo tutta spruzzata di sangue, a sorridere rigogliosa nell’aia dietro la casa, supplicavo Dio, qualunque dio, di permettermi di baciarle la bocca. Ah, come volevo quelle labbra carnose, la saliva tonificante di giovane mulatta di campagna, il molho pardo della mia dannazione.
Sì, avemmo, poco prima della mia partenza, qualche momento intimo, in fondo al cortile, tra le bananeiras, ma non possiedo il lusso di questo ricordo – mi fa troppo male, o troppo bene – così che la memoria, magari per proteggermi, l’ha avvolto nella nebbia tropicale. Si è perso così, forse per sempre, un mondo incomparabile, irripetibile. Il corpo di Carminha è per me la Vienna di Zweig durante il suo patetico esilio a Petrópolis. E la banana – è ridicolo, lo so bene – mi porta tuttora alla vertigine, il suo profumo mi infiacchisce le gambe.
Un giorno la madre di Carminha venne a casa nostra, per chiedere a mia madre di concedere alla figlia una settimana libera, perché quella era la settimana della “festa del Till”, e il direttore dell’albergo – il cui nome è un nostalgico omaggio al mitico burlone del medioevo, Eulenspiegel Till – voleva assumere come cameriere tutte le ragazze dei dintorni, come faceva sempre in quel periodo dell’anno. Pagava bene, l’equivalente di quasi due mesi di lavoro regolare, e per solo una settimana! Se necessario, la madre stessa avrebbe potuto venire a casa nostra al posto della figlia, per dare una mano in cucina.
Era Luglio, mese freddo in Brasile. Sulle cime delle montagne dell’Itatiaia, sugli Aghi Neri, com’erano conosciuti, c’era addirittura la neve. La neve sulle orchidee. Luglio era il mese delle vacanze d’inverno, dei falò nei cortili delle case per abbrustolire la patata dolce e la manioca e per raccontare ai bambini storie di fantasmi, di lupi mannari e della mula-senza-testa. Luglio era anche il mese in cui, tanti anni prima, Adolf Hitler era diventato il Führer del neonato Partito Nazista. Era accaduto il 29 Luglio dell’anno 1921.
Ma io, di queste cose allora non sapevo proprio nulla. Ero soltanto un gringo innamorato, pazzo, malato d’amore, che senza Carminha alla portata dei suoi sguardi si sentiva sprofondare sottoterra.
Un Sabato mattina di quel Luglio, subito dopo l’alba, dopo aver bevuto il mio caffèlatte con farina di granturco, presi la bici e andai a cercare la mia amata. Ero ubriaco di desiderio e di passione, e galleggiavo sulle due ruote, tra nubi di farfalle gialle e rosse, i jacaranda e i grossi alberi di mango con i loro frutti crepuscolari.
Salii sulla montagna verso gli Aghi Neri macchiati di bianco qua e là, verso quell’Hotel Till, dove a quell’ora avrebbe dovuto essere già sveglia la mia dea.
Un’ora dopo, il paesaggio attorno a me era cambiato, non c’erano più fiori né alberi da frutto. Si scorgevano solo quelle gigantesche felci preistoriche che si inoltravano dappertutto. Non so se a causa del freddo e dell’alta quota, non si udiva nemmeno un cinguettio, ed un silenzio di gelo era calato insieme alla nebbia opaca e all’umidità che penetrava fino alle ossa. Mi venivano i tremiti al solo guardare la spessa jungla di felce e a immaginare che mostri nascondeva, che sorta di serpenti, di ragni e lucertole corazzate erano lì in agguato. E così pedalavo con più forza ancora, sentendo le cosce anestetizzate dallo sforzo.
Carminha. Era tutto quello che volevo. E invece trovai la Schutzstaffel-Totenkopfverband. Le “SS”.
La costruzione bianca a tre piani, in stile bavarese, con assi di legno in mostra sulla facciata, era decorata con lunghi stendardi rossi con il cerchio bianco e la croce uncinata in mezzo, grosso ragno che si arrampicava su pareti da poco imbiancate.
Mi nascosi, io e la mia bici, dietro la siepe di camelie che affiancava la stradina di ghiaia, e da lì, tra i grandi fiori di un rosso vivace, osservavo le ragazze in divisa bianca sotto il grembiule, che più tardi avrei riconosciuto come l’abito tradizionale delle ragazze bavaresi. Si agitavano in un’intensa attività di pulizia, nelle verande, nel gazebo e nel giardino stesso, agli ordini di un uomo alto e biondo, dritto come una scopa, con rughe scavate nel viso roseo.
Tanti anni dopo quella mattina di Luglio l’ho rivisto in un documentario della tv svizzera. Si era suicidato in una cella del piccolo comissariato di polizia dell’Itatiaia mangiando i cocci di un bicchiere, prima che arrivassero da Brasília gli agenti federali per interrogarlo. Si chiamava Franz Gustav Wagner. Era stato il supervisore generale del lager di Sobibor.
Ma in quella mattina del ’68, cosa potevo io indovinare di Sobibor o dell’Operazione Odessa che lo aveva portato fino a quelle montagne, o dei “ragazzi venuti dal Brasile”, il film che riaccese le nostre fantasie sui reduci dell’hitlerismo? Io sapevo solo quello che vedevo, ed era già tanto! Circolavano per il giardino, ora, altri uomini in divisa nera, con un bicchiere di vino bianco in mano, a ridere alto e a salutarsi con il braccio steso. Vedevo gli stivali neri che calpestavano il prato delle dormideiras, che chiudevano le loro foglie al tocco più leggero, e vedevo i Totenkopf, la “testa del Morto”, sulla loro fronte, i teschi con le tibie incrociate, e i quadratini e le stelle colorate sul loro petto, l’aquila d’argento, tutto quello che i miei occhi di ragazzo erano in grado di raccogliere allora, e di più, le trecce bionde di una donna grassa arrotolate attorno alla sua testa, un vecchio con una grossa pancia che vestiva un giubbotto con i bottoni che non si chiudevano più, e che portava una piccola scimmia sulla sua spalla, e un altro vecchio, magro, con un monocolo, e un volto che mi fece rabbrividire di paura: non rideva mai. E le bandiere, i due fulmini neri l’uno accanto all’altro che poi scoprii essere il simbolo delle “SS”, i cani pastori, e finalmente Carminha, nel gruppo delle ragazze vestite di bianco, a capo chino, con il grembiule immacolato e un vivace fazzoletto che le copriva i capelli, sempre a lavorare, a pulire, ad aspettare ordini: era diventata un’altra persona, un personaggio di quella spaventosa coreografia, e in qualche modo mi parve come inquinata da quegli stendardi, dagli stivali, dalla nebbia, da quelle persone che, come diceva sua madre, “la pagavano così bene”. Non l’ho mai perdonata. Ma non l’ho amata meno per questo. Cercai solo di capirla meglio, di decifrare quella nuova ragazza, la serva dimessa degli orchi, quando i cani cominciarono a ringhiare pericolosamente ed io ritornai in me. Allora tirai su la bici, evitando il fruscio prodotto dalla ghiaia calpestata, e camminai sull’erba fino al bosco di felci che mi avrebbe ricondotto alla stradina. Poi mi rifugiai a casa mia, sotto le coperte di lana, al riparo di un’improbabile blitzkrieg.
Due anni fa, io e mia moglie Alessandra siamo andati in Venezuela in visita a certi suoi parenti che sono immigrati lì in passato mettendo su una prospera industria di scarpe. Vivono fuori Caracas, in un quartiere molto bello e molto tranquillo, pieno di verde, con la catena di montagne sullo sfondo. Lì, una mattina, mi sono svegliato inquieto, un po’ stordito. Ho guardato fisso il volto di Alessandra, spaventata da morire, come se non la conoscessi, come se non l’avessi mai vista prima.
Il mio disorientamento è durato un minuto, o forse meno, ma allo stesso tempo è durato un lungo pezzo di una vita intera.
La nostra stanza era oscurata da tende color paglia, ma il sole tropicale le penetrava con fini raggi e dipingeva di strisce la costosa carta da parati. Il profumo nell’aria era quello del gelsomino e del pulito. E si udiva sul fondo, tra gli schizzi dello zampillo che annaffiavano il prato, il cinguettio di un Ben Tivì nascosto tra i rami di un albero vicino.
Ogni sua nota un morso di passione e di paura.
Troppo corta la vita per una giornata come quella.
Julio Monteiro Martins
João Pessoa, Luglio 2000
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