Originale inglese di Shailja Patel, traduzione italiana di Marta Matteini. La performance in inglese è stata registrata nell’ambito della serie TED TalentSearch http://www.youtube.com/watch?v=3aTpS4gjDss
La musicista Bi Kidude è morta a quasi cento anni, nell’aprile 2013
La vecchia con il tamburo: un tributo a Bi Kidude
1.
La donna posò il tamburo sull’erba, di fronte a sé.
Si avvolse un morbido telo intorno ai fianchi.
Come se stesse per lavare i panni, tagliare le verdure
legarsi sulla schiena il bambino per andare al mercato.
Nessuno di noi le fece caso.
La donna si imbrigliò il tamburo ai fianchi.
Un tamburo msondo che le arrivava all’altezza del petto, due palmi di diametro
Lo inclinò e se lo infilò tra le gambe.
Si sistemò per bene.
Tirò su la schiena.
Le spalle e il collo, pronti a scattare.
La bocca con le gengive in bella vista.
Dal lembo rialzato del telo spuntano le gambe magre e forti.
I piedi ben radicati a terra
Come se fosse arrivato il momento
Di darsi da fare.
Come se stesse andando
A lavorare.
All’improvviso, ci troviamo
Sul pianeta Kidude.
Dove gli uomini si muovono rapidi sulla stuoia:
piazzano i microfoni, sistemano i fili, si agitano per puntare le telecamere.
E la vecchia non si cura di nessuno.
Perché sono ottant’anni che suona il tamburo
Ben prima che esistessero le telecamere e i microfoni.
Anni e anni in cui ha trasportato il suo tamburo
incespicando tra la polvere
in tutta la Tanzania da cima a fondo
Per suonare.
Anni e anni in cui ha affrontato
La paura, gli insulti, le beffe
Il silenzio che ti distrugge l’anima
Sopravvive soltanto il fuoco più resistente.
Anni e anni in cui si è spinta sempre più nel profondo
Fino a toccare il centro del suo ritmo.
Questa è Bi Kidude.
Una virtuosa di musica Taraab, iniziatrice di Unyago.
Una donna che a novantacinque anni
Ha percorso più miglia a piedi
Di quante ne abbia fatte chiunque di noi in macchina.
Rivendica un lignaggio
Musicale radicato
Nelle vite di chi non ha niente
Storie raccontate nel linguaggio della strada e del mercato
Poesia sepolta nei corpi delle donne.
II.
Non ho mai visto una donna a cavallo del tamburo
Come una dea che cavalca la tigre
Come la creazione che cavalca il cosmo.
Non ho mai visto una donna a cavallo del tamburo.
Non ho mai visto un artista
Né uomo né donna
In nessun posto al mondo
Possedere il proprio strumento
Come se uscisse dal suo ventre
Come se fosse saldato
Alle sue cosce.
III.
Poi arrivano le danzatrici.
Le danzatrici si muovono lentamente.
Posano i cellulari, scuotono i loro teli.
Gioielli d’oro alle orecchie, al collo, ai polsi;
l’oro luccica nelle loro bocche.
Le danzatrici risucchiate dal movimento
Come un pezzo di verdura scivola nell’olio bollente
Poi risale in superficie
E inizia a friggere.
Adesso le danzatrici muovono i fianchi
Con precisione ed equilibrio, controllano
la propria forza, ogni singolo muscolo
gli atleti olimpionici morirebbero d’invidia.
Ondeggiano i fianchi
Per tutte noi
A cui è stato insegnato, imposto
Di rinnegare i nostri corpi. Per tutte le donne
Che sono state
Derubate del proprio corpo.
Spingono i sederi spumeggianti all’indietro
con democratica generosità.
Si burlano di un’anziana avvolta nel buibui nero.
Scherniscono il turista bianco con i dread locks
Che si finge distaccato
Dietro gli occhiali scuri
Mentre vedo che il collo gli diventa rosso
E si riga di gocce di sudore.
Le danzatrici agitano i fianchi
Per le cameriere
Dell’Africa House Hotel. Intrappolate
In disgustose, orribili, scadenti e soffocanti
gonne nere e camicie bianche
di un tessuto che fa sudare
mentre servono cocktail alle turiste in short e bikini.
Perché non sia mai detto che chi serve
senta la brezza leggera sulla pelle
non sia mai detto che chi serve
possa muovere i fianchi e il busto
in abiti comodi
di colori che vibrano.
Dimenticheremmo che sono personale di servizio.
Potremmo
Accorgerci di loro.
Le danzatrici agitano i fianchi per le donne
Quelle cameriere intanto servono. Turiste
In bikini dalle facce slavate
Sul bordo della piscina del Serena’s.
Donne che controllano i loro corpi quotidianamente
A caccia di un po’ di grasso in più
Di un’abbondanza da condannare.
Donne che condividono la tragica sorellanza
Della liposuzione, della chirurgia estetica
la silenziosa epidemia delle morti da anoressia.
Donne a cui hanno insegnato che essere belle
significa cancellare se stesse.
Queste danzatrici ruotano i fianchi
Per le seimila bambine che oggi stesso
Sono state tenute ferme, con le gambe divaricate, le mani legate,
imbavagliate, bendate, torturate
oltre ogni sopportazione, violentate
oltre ogni limite, circoncise
per colpa
di un clitoride.
Agitano i fianchi per ogni donna
Che ha preso il virus dell’Hiv
Da un uomo che ha dato più valore al suo piacere
Che alla vita di lei.
Queste donne che circondano Bi Kidude
Come pianeti intorno al sole
Le si agitano intorno come le vipere dello Snake Temple
Come pantere sinuose
Intorno alla primigenia fonte del suono;
si agitano per riportare nel mondo
la generosità
dei corpi femminili.
Con i fianchi e i sederi dicono SÍÍ!!!
SÍ
All’abbondanza che non si vergogna.
SÍ
Al potere, alla conoscenza
Che non si mascherano più.
SÍ
Al piacere,
rivendicato e conferito
ai nostri bei corpi mortali.
IV.
Non ho più paura di invecchiare
Dopo aver sentito Bi Kidude
Cantare forte
A novantacinque anni
Senza microfono
Onde sonore macchiate di tabacco
Cartavetrate fino a diventare sottili come la fibra di cocco
Più resistenti dei cavi d’acciaio.
Non ho più paura di invecchiare
Dopo aver visto Bi Kidude –
un viso non mai sfiorato da
Una crema antirughe,
da un peeling antiage con acido glicolico,
un viso che trangugia whisky e sigarette
per ogni grammo di idratante che uso io –
ipnotizzare centinaia di telecamere.
Ho sentito la forza del collo di questa donna,
i muscoli delle sue spalle
un tuono che si innalza
e il braccio che scende e poi la mano sul tamburo;
scatena più elettricità
di dieci Madonne
di cento Fela Kuti accompagnati da sedici musicisti
ci riporta al centro della creazione
dove nasce il suono.
V.
Credo in Bi Kidude
Come non credo in dio.
Ma se dio fosse una donna di novantacinque anni, nera come l’ebano
Una donna swahili
Che dice di avere centoventi anni,
con la bocca piena di denti rotti e di buchi
con le mani percorse dalle vene come i tronchi di banyan
il tamburo in mezzo alle gambe
la sigaretta tra le labbra sagge e insolenti
una banconota che sventola dalla scollatura;
se dio cantasse versi taglienti e maliziosi
sui pericoli del rotolino di tabacco
che tiene in bocca;
se dio fosse anche ironia, lussuria, contraddizione
sofferenza, imperfezione;
se dio sbandierasse le sue battaglie come un mantello di velluto,
se orchestrasse gli atomi dell’universo
secondo il ritmo del suo ventre
allora forse sì crederei in quel dio.
Quel dio che è solo il nome
Del genio che sta dentro tutti noi
Che fa di noi il nostro imam e il nostro profeta
La nostra divinità.
Esorterei i fedeli a pregare:
Sia lode a Kidude! Kidude urrah!
E loro risponderebbero: Urrah!
Risponderebbero: Urrah!
Risponderebbero: URRAH!
E tutti noi diventeremmo
dio.
Shailja Patel, 2006
Drum Rider: A Tribute to Bi Kidude
I.
The woman planted a drum on the grass before her.
Twisted a soft worn khanga round her hips.
As if she was going to wash clothes, chop vegetables;
hike a child to her back to go to market.
None of us really paid any attention.
The woman harnessed her hips to the drum.
Chest-high, foot-in-diameter msondo drum.
Rocked it aslant between her straddled legs.
Settled into position.
Sunken chest erect.
Shoulders, neck, at the ready.
Mouth set over gaping gums.
Khanga hiked up skinny strong legs.
Feet grounded in the earth
like it was time
to do business.
Like she was going
to work.
Suddenly, we are on
Planet Kidude.
Where men scurry across the mat:
place mics, arrange wires, jostle for camera views.
Where the woman ignores them all.
Because she did this for eight decades
before there were cameras, mics.
Decades she hoisted her drum
trudged rich dirt
the length and breadth of Tanzania
to perform.
Decades she fought off
terror, insults, mockery
the soul-destroying silence
only the strongest fire survives.
Decades she t ravelled deep and deeper
to the heart of her own rhythm.
This is Bi Kidude.
Virtuoso of Taraab, Unyago.
Woman who at ninety-five,
has walked more miles
than most of us have driven.
Claimed a lineage
of music rooted
in the lives of the powerless
stories unfurled in language of street and market
poetry buried in the bodies of women.
II.
I have never seen a woman ride a drum before
like a goddess rides a tiger
like creation rides the cosmos.
I have never seen a woman ride a drum like this.
I have never seen an artist
male or female
anywhere across the globe
own their instrument like
it grew out of their belly,
like it was welded
to their thighs.
III.
Then, there were the dancers.
The dancers moved lazily.
Dropped their cellphones, shook out their khangas.
Gold at their ears, their necks, their wrists;
gold gleamed in their mouths.
The dancers slipped into movement
as a bhajia slips into hot oil
rises to the surface
starts to sizzle.
Now the dancers work their hips
with a precision of balance, control
a potency of strength, of muscle isolation
Olympic gymnasts would envy.
They shake their hips
for all of us
who have been taught, coerced
to disown our bodies. For all women
whose bodies
have been stolen from them.
They thrust their succulent buttocks out
with democratic largesse.
Tease the old woman in the black buibui.
Taunt the white-boy, dreadlocked tourist,
who feigns coolness
behind his wraparound sunglasses,
while I watch his neck turn scarlet
drip with sweat.
The dancers work their hips
for the waitresses
at Africa House Hotel. Caged
in the most godawful
ugly, cheap, confining
sweat-producing black skirts, white shirts
to serve drinks to tourists in shorts and bikinis.
Because heaven forbid those who serve
should ever feel breeze on their skins
heaven forbid those who serve
should move their hips and torsos
freely in clothes that flow
colours that hum.
We might forget they are servants.
We might
see them.
The dancers shake their hips for the women
those waitresses serve. Waxy-pale
bikini-clad tourists
at Serena’s poolside.
Women who check their bodies daily
for criminal fat
outlawed abundance of flesh.
Women of the tragic sisterhood
of liposuction, surgical alteration
silent epidemic of anorexia deaths.
Women taught that beauty
equals self-annihilation.
These dancers swivel their hips
for the six-thousand girl children who today
were held down, legs spread, hands tied,
gagged, blindfolded, tortured
beyond screaming, violated
beyond horror, circumcised
for the crime
of a clitoris.
They move their hips for every woman
infected with HIV
by a man who valued her life
less than his gratification.
These women who circle Bi Kidude
as planets orbit the sun
circle like temple snakes
sinuous panthers
the source where sound begins;
they are shaking the bounty
of women’s bodies
back into the world.
Their hips and butts are saying: YESS!!
YES
to largeness that does not apologise.
YES
to power, knowledge,
that do not disguise themselves.
YES
to pleasure,
claimed and vested
in our mortal beautiful bodies.
III
I will never fear aging again
because now I have heard Bi Kidude
belt out
at ninety-five
without a mic
tobacco-stained waves of sound
sandpapered down to coconut fibre
stronger than cables of steel.
I will never fear aging again
because now I have seen Bi Kidude –
whose face has never touched
an anti-wrinkle cream,
an age-defying glycolic acid enzyme peel,
who knocks back whisky, cigarettes
for every ounce of moisturizer I consume –
hypnotise a hundred cameras.
I have felt the power of this woman’s neck,
her shoulder muscles
surge thunder
down arm to hand to drum;
generate more electricity
than ten Madonnas
a hundred Fela Kutis with sixteen-piece bands
take us back to the center of fertile creation
where sound begins.
IV.
I believe in Bi Kidude
the way I don’t believe in god.
But if god were a ninety-five-year old, ebony black
Swahili woman,
who claims to be one hundred and twenty,
with a mouth full of broken and missing teeth
hands veined like banyan trees
a drum between her legs
a kijiti at her defiant, all-knowing lips
a shillingi-mia-kumi note flapping out of her neckline;
if god chanted wickedly satirical shairi
about the dangers of the very deathstick
she sucks on;
if god embraced irony, lust, contradiction
heartbreak, imperfection;
if god flaunted her struggles like a velvet cape,
rearranged the atoms of the world
with the rhythm of her gut
then maybe I would believe
in that god.
That god who is only a name
for the genius in all of us
that makes us our own imam and prophet
our own divinity.
I would call the faithful to prayer:
Bomba Kidude! Kidude Saafi!
And they would holler back: Saafi!
They would holler back: Saafi!
They would holler back: SAAFI!
And we would all be
god.
– Shailja Patel, 2006, www.shailja.com
Glossary:
taraab – traditional music of Zanzibar
unyago – Swahili women’s drumming and music, used to educate young women into adult sexuality and prepare them for marriage
bhajia – deep fried batter-dipped lentil / vegetable dumpling
buibui – head-to-toe black garment worn by conservative Muslim women on the East African coast.
kijiti – cigarette
shillingi-mia-kumi – ten thousand shillings. In the taraab tradition, audience members tuck money into the clothing of musicians as a tribute
shairi – swahili lyrical poetry
saafi – literal translation is ‘clean’ , but the word is used as a public accolade, shout of audience approval