Un sempreverde tra i miei poco felici tentativi di pamphlet polemico in Italia… ripreso dalla sua prima pubblicazione in Versante Ripido di Dicembre 2015
Il rifiuto di declinare le proprie generalità comporta…. di Pina Piccolo.
Seduta in treno sto meditando su come affrontare per l’ennesima volta il tema della scrittura femminile, un argomento che non mi ha mai particolarmente appassionato (e creo di solito scandalo quando lo confesso), ma poi la voce disincarnata del capotreno nell’esercizio delle sue funzioni, inaspettatamente mi fornisce un appiglio, magari una piccola ispirazione.
Forse questa mia scarsa propensione a sezionare la scrittura per determinarne il sesso o il genere deriva da una mia atavica resistenza a volermi fissare in un’unica identità – cioè stento a declinare le mie generalità (???), anche se lo volessi, e in più poi mi ribello se il rifiuto comporta tutta una serie di sanzioni. Pur non volendo, il capotreno ha toccato il tasto dolente e forse mi ha regalato una soluzione.
Naturalmente negli ultimi trent’anni, con l’arrivo dei Queer studies e adesso con l’accettazione da parte di larghe fasce di studiose del concetto di intersezionalità, le cose sono diventate molto più facili, tuttavia è un conto trovare una “casa” a livello concettuale ed un’altra confrontarsi con altre donne, più o meno della propria età, in un contesto come quello europeo in cui gran parte delle donne della mia generazione è stata coscientizzata dal femminismo della differenza e si tiene care quelle radici. Per me non è stato così – le esperienze di vita che mi hanno formata e che hanno dato impulso ai miei interessi e alle metodologie e forse anche agli stili che adotto sono state molto diverse. Pur conoscendo le argomentazioni a livello intellettuale non ho mai subito il fascino del femminismo della differenza. Come pure non mi sono mai identificata nel concetto di attesa, di rammendo, di tessitura, di bellezza e anche a rischio di sembrare megalomane, di cura. Posso dire, in tutta coscienza, che non mi importa di avere una stanza tutta per me (dentro la quale scrivere), non mi sono mai sognata di avere “madri” letterarie diverse dalla mia madre carnale (una contadina che pur avendo la terza elementare scriveva poesie e aveva pensato bene di dare Beatrice come secondo nome alla figlia, in un contesto traboccante di Carmele, Terese, Marie e Rose). E devo anche dire che sono insofferente all’idea di dover rendere omaggio a tutta una serie di scrittrici che si sono suicidate, e che solo il pensiero di essere presa in affido da delle filosofe dall’opaca scrittura mi riempie di ansia. Lo stesso dicasi della prospettiva di dover trascorrere tutta la vita nella grande casa della madre matriarca ad accudire la figliolanza varia e ricevere visite notturne di mariti che, a loro volta, abitano nella grande casa della propria madre prendendosi cura dei figli delle sorelle.
Lo so che questo potrebbe sembrare un impianto gratuitamente polemico, ma è forse bene sgombrare il campo dichiarando prima “quello che non sono” per cercare di capire quello che forse sono in processo di diventare. E’ un lavoro molto lungo e penso che per questo numero di Versante Ripido posso solo scrivere una piccola parte, una specie di riflessione preliminare. Quindi chiedo venia e prego chi legge di non essere eccessivamente spietata e di considerare che è un “work in progress”.
Di ballatoi, zie ‘malvage’ e dolori lancinanti alle orecchie
Quando mi chiedono qual è la prima cosa che ricordo, devo confessare che è una cosa legata al genere, anche se all’epoca non me ne rendevo conto. Il primo tentativo, tra gli innumerevoli, tutti mal riusciti, fatti dall’Italia di imporre “la femminilità” a una creatura poco addomesticabile.
Ho tre anni, sono in un posto strano, tra persone che non capisco, in un tipo di abitazione (modesta casa di contadini di un piccolo paese calabrese nel 1959) che non avevo mai visto prima. Sono seduta sulle ginocchia di una zia bionda sul ballatoio che collega la cucina alla scala che porta fuori nel giardino. Ad un tratto un dolore lancinante alle orecchie, grido in inglese “Help! Help! Somebody help me! (grido che avrei rinnovato tre anni dopo durante le vaccinazioni antidifterite di massa, con il pennino; fatte in prima elementare alla scuola Maria Mazzini di Genova Sampierdarena, senza mai trovare aiuto naturalmente) ma due forti braccia femminili mi immobilizzano. La mia aguzzina bionda è la mia venticinquenne zia Carmelina che dietro richiesta di mia madre mi ha appena fatto i buchi alle orecchie. Dopo questa esperienza traumatica trascorrerò i prossimi due mesi a fare cose che poco si addicono a una bambina: lanciare pietre contro tutti gli astanti e non smettere di girare su me stessa stile danzatori darvishi. Le circostanze del mio soggiorno calabrese? Il ritorno al paesello, dalla California, da una piccola spedizione femminile composta da me, mia madre e mia sorella maggiore (all’epoca ventenne) per fare sposare quest’ultima con un partito adatto, giovane italiano di comprovata onestà e dedizione al lavoro, selezionato dopo aver preso informazioni sulla famiglia e il carattere del giovane, e naturalmente in base al fatto che i due giovani si piacessero. (cosa di non poca importanza e modernità, tenendo conto che spesso solo in una generazione precedente poco contava la volontà della ragazza). Perché ho scelto questo episodio per iniziare le mie riflessioni sulla scrittura femminile? Perché mi offre tutto un osservatorio sulla confluenza ed intersezione di fattori di classe sociale, status di migrazione o sedentarietà, il tutto esplicato in una spedizione intercontinentale femminile con importazione di nuove tecnologie. Mentre io bambina giravo come darvisha il giorno del matrimonio di mia sorella agghindata in un abito bianco largo e tondo, stile torta di pizzo e tulle, mia cugina di cinque anni dall’aria un po’ truce, in maniera più consona ai ruoli di genere, recava fiori in un cestino e gli anelli, apparendo spesso nelle riprese fatte da mia madre con la telecamera super 8, la prima che si fosse vista nel paese e che era stata portata dalla California appunto da mia madre per filmare le nozze per il resto della famiglia. Mia madre era sempre stata all’avanguardia nella sua convinzione della necessità della documentazione visiva, anche se la tecnica lasciava a desiderare. Per sopperire alla mancanza degli altri membri della famiglia, mia madre aveva portato i filmini dalla California Mia nonna che non vedeva il figlio da 7 anni si era commossa nel vederne proiettate le immagini sul lenzuolo ed era corsa ad abbracciarlo. Sono cresciuta in un mondo in cui le donne agiscono, prendono iniziativa (anche se spesso nei limiti e al limite dei costumi vigenti), non si preoccupano eccessivamente del “look” e non rispecchiano quella passività con la quale a volte le donne vengono forzatamente caratterizzate da certi sguardi femministi che ne analizzano l’esistenza. Spesse volte il quid della scrittura “femminile” viene associata ad uno spiccato interesse per il corpo, quasi come se la scrittura promanasse da esso l’esplorazione dell’amore, dell’attesa, una specie di autocompiacimento e un arrovellarsi nella immobilità e nello status di vittima. Certamente esagero ma questa corporeità del femminile mi rimanda ad uno degli ultimi romanzi di Doris Lessing, “The Cleft” in cui vengono descritte le primordiali creature acquatiche, tutte femminili, e spaparanzate sulle rocce a mo’ di foche, prima dell’avvento della differenziazione dei sessi. E naturalmente, stento molto a riconoscermi in esse.
Cronaca dell’aguzzina
La zia Carmelina, la mia venticinquenne aguzzina bionda, era stata a sua volta, quasi come in una favola, la vittima di una matrigna che la metteva a lavare panni già da quando aveva cinque anni, facendola salire su una panca perché arrivasse alla gebbia (parola che viene dall’arabo per indicare la cisterna dell’irrigazione). Mia madre, che era una sua parente, non riusciva a sopportare i pianti e l’infelicità di quella ragazza e si era adoperata perché, giunta a un’età idonea- tipo 17 anni- si liberasse da questa sua schiavitù sposando il fratello minore di suo marito. E quella ragazza bionda, con la sua resilienza e forza fisica, si rivelò a sua volta il motore della propria famiglia, essendo il marito in cattiva salute. E quella zia “aguzzina” impositrice di femminilità alle mie orecchie, trent’anni dopo, in seguito alla migrazione della propria famiglia al nord Italia, con le tre figlie (una delle quali aveva, quindicenne, suscitato scandalo nel paesello, per aver attaccato in piazza dei manifesti da lei disegnati al liceo artistico per la giornata della donna), quella zia, capace di ammazzare i conigli con un colpo di karate magistralmente assestato alla nuca dell’animale e di spaccare la legna con l’ascia meglio di un uomo, aveva lottato come una tigre per strappare sua figlia all’anoressia causata dal dolore per il tradimento e poi il divorzio dal marito di cui era profondamente innamorata. Come osservatrice esterna nel corso dei 57 anni posso dire di esser testimone delle parabole e delle intersezioni nella vita di questa zia già ottantenne, e posso supplire agli anni precedenti alla mia nascita con i racconti fatti da mia madre. E i racconti delle vite delle altre zie esibirebbero molte caratteristiche in comune, sono storie di resilienza alternati anche ad arrese e disperazioni. Provengo forse da una famiglia, anomala, maladattata alla femminilità, in cui alcune delle donne si rifiutano di stare dentro i confini imposti dal ruolo femminile riconoscibile nella “scrittura femminile”? Cosa posso farci se Penelope non è stata mai il mio modello? Già quando la vedevo interpretata nello sceneggiato televisivo da Irene Papas stentavo molto ad identificarmi nella sua figura. Caso mai poteva avere un certo appeal la figura di Grushenka, nei fratelli Karamazov, decisamente aveva un fascino maggiore di quello di Katarina, la fidanzatina modello e sofferente, anche se in verità, a livello di identificazione, non sapevo se scegliere tra Aliusha e Ivan, decisamente i personaggi che mi interessavano di più. Che ci posso fare se trucchi e belletti non hanno mai esercitato alcun fascino su di me? Se non mi sono mai sentita sufficientemente di appartenere ad un luogo per adattarmi, conformarmi nella speranza di essere eventualmente accettata? Se per me le armi della furbizia si sono esplicate non tanto nell’attesa ma nell’azione? Vuol dire forse che sono un uomo? Che la mia scrittura rispecchierà tratti maschili? Mi viene in mente la famosa domanda di Sojourner Truth, “Ain’t i woman?” anche se naturalmente il contesto è molto diverso. Sono forse meno “femminile” nella mia scrittura perché invece del corpo e dell’attesa tendo ad occuparmi di politica, di grottesco, di meccanismi di mistificazione e potere e poco mi appassionano gli scritti in cui la famiglia e gli affetti sono al centro? O forse vorrà dire che dentro di noi, maschi e femmine e tutti gli altri generi, ci sono intere tribù di caratteristiche, forse in alcuni momenti della vita alcune primeggiano sulle altre, anche a seconda delle circostanze, degli spazi di potere di cui ci possiamo appropriare, di tutto l’ecosistema sociologico in cui siamo impiantate? Forse la nostra scrittura può risentire di tali spostamenti e secondo me non ha senso assegnare alla scrittura le famose generalità pretese dal capotreno. Cosa dire quando uno scrittore come il romanziere egiziano Mahfouz apre un romanzo come “Palace Walk” con la descrizione di 35 pagine della madre, Amina, che penso sia uno dei più approfonditi studi psicologici di una donna egiziana in quel contesto storico, del suo sguardo, della sua fede e della sua identità che siano mai stati scritti? Vuol dire che Mahfouz esibisce un tipo di “ scrittura femminile” o semplicemente che è uno scrittore perspicace e con grande padronanza degli strumenti? Che dire di scrittrici che spiccano per la capacità di creare interi mondi, anche di avventura in cui l’amore o la famiglia non primeggiano? Mi vengono in mente da una parte le creazioni fantascientifiche di Ursula LeGuin e dall’altra quelle della scrittrice più di successo e più ricca del pianeta. J.K. Rowling e la serie dei libri di Harry Potter. In entrambi i casi stenterei davvero a denotare la loro scrittura secondo criteri di genere.
Immagine di copertina, per gentile concessione di Pixabay.
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